Carlo Cassola, Colle Val d’Elsa

Da Paolorossi

Colle Val d’Elsa

Cominciò la salita fra i castagni. Mara alzando il braccio riuscì a strappare una foglia. «Stai ferma» la ammonì Bube. «Se fai un movimento brusco, rischiamo di cadere.» 

Alla prima curva, dovette rizzarsi sui pedali. Ansimava. «Sei stanco?» gli chiese Mara. A fatica Bube riuscì a rispondere di no. «Vuoi che scenda?» Stavolta lui nemmeno ce la fece a parlare, ma pigiò ancora di più sui pedali. Mara si voltò a guardarlo: aveva il viso contratto, l’occhio velato; sudava; si vedeva che ci s’era messo con tutto l’impegno per figurare davanti alla fidanzata. «Sei un campione» gli disse; e lui fece una smorfia, che voleva essere un sorriso. Finalmente furono in cima. La bicicletta continuò ad andare a passo d’uomo, perché Bube, esausto, aveva smesso di pedalare. «Povero il mio Bubino» disse affettuosamente Mara.

Ora il paesaggio era diverso: brullo, pietroso, senza un albero; con cespi di ginestra fioriti. Ancora una leggera salita, tutta diritta, e si aprì la vista della Valdelsa. Mara mandò un’esclamazione di gioia. Il sole era ancora basso sull’orizzonte e un po’ annebbiato.

Si vedeva solo la sommità delle colline di fronte, perchè la base era cancellata dalla nebbia che indugiava nel fondovalle. Un luccicore sinuoso indicava il corso del fiume.

«Siamo vicini!» gridò Mara eccitatissima. Era andata molte altre volte a Colle, in bicicletta e anche a piedi; ma stavolta la gita aveva il sapore di un’avventura. Sorpassarono un barroccio, poi due contadine che camminavano una dietro l’altra sul bordo erboso, con una cesta in capo e le scarpe in mano; poi tre uomini, che camminavano in mezzo alla strada parlando forte. «Sai che oggi c’è mercato a Colle?» disse Mara. E anche questo la rendeva allegra.

Il falsopiano stava per finire. Colle era nascosta dietro il ciglio: se ne scorgevano solo poche case, e una porta merlata, verso cui puntava diritta la strada. Ma loro presero a sinistra, per un viale di platani, che s’incassò sempre più profondamente tra una forra e un fosso di scarico, di là dal quale si levava il bastione delle case, con le finestre piccole, i panni tesi, un’aria vecchia e tetra. Descrivendo un’ampia giravolta, il viale sbucò infine nella parte bassa del paese, fra tettoie, capannoni, piccole ciminiere; e macerie, anche, su cui cresceva un’erbaccia polverosa. Il selciato sconnesso e i passanti sempre più numerosi costringevano Bube ad andare piano e a scampanellare in continuazione.

Scesero in piazza, con gran sollievo di Mara, che cominciava a sentirsi indolenzita.

(Carlo Cassola, La ragazza di Bube, pag. 43 – 1960)

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