Firenze
Quando entrarono in Firenze, il tempo si era completamente rimesso, e Mara poté godersi lo spettacolo per lei nuovo delle vie e delle piazze piene di traffico e di animazione.
Erano appena le nove, troppo presto per andare dall’avvocato: così sedettero in un caffè. Mara prese due paste e un cappuccino. Osservava la gente, e non prestava ascolto a quello che dicevano il padre e Lidori. L’autista, se n’era andato per conto suo. Le dispiacque doversi muovere. Percorsero una strada affollatissima, piena di splendide vetrine; piegarono per una stradetta, e si fermarono davanti a un portoncino.
“Che ci vado a fare io?” pensava Mara; avrebbe preferito rimanere a girellare. Ma non ebbe il coraggio di proporlo.
La porta dello studio era a due battenti foderati di stoffa, come quelli dei cinematografi; la spinsero, ed entrarono in una stanzetta dove c’erano due poltroncine, un divano, un tavolinetto: una signorina con gli occhiali e il grembiule nero, sentiti i loro nomi, disse che l’avvocato li avrebbe ricevuti subito.
(Carlo Cassola, La ragazza di Bube, pag. 144 – 1960)
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