Carlo Diano – D’Annunzio e la Grecia

Creato il 28 settembre 2014 da Emilia48

Prassitele, Hermes e Dioniso. Olimpia

Ancora oggi capita di leggere – soprattutto sul web, ma non solo – giudizi superficiali e affrettati su Gabriele D’Annunzio, in genere di tale superficialità e finanche stupidità da essere risibili. E pronunciati non solo da parte di persone digiune di cultura, che ripetono pedissequamente stereotipi ormai frusti ma ben radicati nel modesto bagaglio culturale collettivo. No, anche da parte di, diciamo così, addetti ai lavori, quali professori di scuola, scrittori, poeti, giornalisti. So persino di professori delle superiori che, se non lo liquidano in mezza lezione,  lo fanno a pezzi nei loro programmi, limitandosi a leggere La pioggia nel pineto, che di fatto è anche l’unica cosa che di D’Annunzio hanno letto loro stessi. Mai, credo, in Italia, a parte la Bibbia, c’è stata una produzione letteraria così ignorata, così poco conosciuta e sulla quale però tutti si sentono di stilare giudizi, quanto l’opera di D’Annunzio. Basterebbe solo il Notturno, Alcyone e le Cento e cento e cento pagine del Libro Segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire per consacrare una volta per sempre un autore in un qualunque altro paese civile.

Mi sono decisa perciò a pubblicare il testo di una conferenza che Carlo Diano tenne, senza supporti di testo scritto, nel 1963, nel corso di una riunione conviviale, registrata e poi trascritta, che seguì di qualche mese  la conferenza, essa pure registrata e trascritta, assai più ampia e meno informale di questa, tenuta alcuni mesi prima a Gardone  Riviera durante il Convegno internazionale per il centenario della nascita di D’Annunzio. La lettura che Diano dà del poeta è unica nel panorama critico su D’Annunzio, non mai più seguita da nessuno e ancora oggi originalissima e rivoluzionaria.

F.D.

************************

CARLO DIANO

D’ANNUNZIO E LA GRECIA

(1963)[1]

Ho partecipato al Congresso dannunziano. Congresso d’obbligo: quando scadono i cento anni gli uomini si sentono commuovere, un po’ per omaggio al passato, un po’ per omaggio a sé stessi e così organizzano di queste celebrazioni. Il Congresso per il centenario della nascita è stato abbastanza equivoco. Quando io sono arrivato, ultimo, a parlare di un tema in apparenza marginale, qual è quello di D’Annunzio e la Grecia, la conclusione cui si era arrivati era suppergiù questa, che D’Annunzio per noi non è più comprensibile, o almeno è incomprensibile per la letteratura contemporanea. Si aveva l’impressione che il Congresso si dovesse chiudere seppellendo D’Annunzio con un epitaffio che ne mettesse definitivamente in pace le ossa tormentate.

Io però devo dire che i poeti della gloria non hanno bisogno; anzi, se sono davvero poeti, non la cercano. La poesia è un destino; si nasce sotto questo destino. Ricordo il poema che apre i Fiori del male di Baudelaire; questo bambino che nasce maledetto dai suoi genitori, perseguitato da tutti e che parla con la nuvola, parla col vento e con l’angelo che lo segue “dans son pélégrinage, pleure de le voir gai/ comme un oiseau des bois”… Ricordo questi versi di Baudelaire perché questa gioia dell’uccello nei boschi è l’estrema conclusione della vita di D’Annunzio, una vita intimamente tormentata, come dall’opera non appare, ma come ci è rivelato dall’ultimo suo libro, Il Libro segreto di G. D’A, tentato di morire; vita tormentata che è stata anche a tratti una vita ascetica, malgrado le sue apparenti dispersioni.

Parlando di sé, nella prefazione di Più che l’amore, e ricordando il Laus Vitae, che considerava la sua opera maggiore e il poema più grande che fosse stato scritto dopo la Divina Commedia, egli scrive: “due fra tanti insegnamenti colui ritenga con più strenua tenacia, due arti eroiche: l’arte di inventare ogni giorno la propria virtù contro l’evento e l’arte di serbarsi puro.”

Più volte il tema della purità e dell’innocenza ritorna in D’Annunzio e i suoi critici l’hanno considerato sempre come una delle tante apparenti, non dico menzogne, ma insomma vanterie, presunzioni di questo poeta trasmutabile per tutti i modi, e che si vantava di aver assunto tutte le forme e di aver tentato tutte le esperienze. Ma nel fondo bisogna dire che D’Annunzio ha tutta la sua vita perseguito una disciplina severa nella ricerca di se stesso, una ricerca estremamente difficile,  perché egli si è trovato a vivere in una cultura, in una tradizione letteraria, artistica e di idee contro cui tutto il suo essere ripugnava.

Quello che sto per dire desterà certo la vostra meraviglia, come l’ha destata in coloro cui l’ho detto in precedenza.

D’Annunzio non appartiene al XIX o XX secolo, bensì al II millennio avanti Cristo. L’esperienza di D’Annunzio è l’esperienza dell’uomo del Neolitico. Nel fondo del suo essere si agitavano sensi mitici e visioni delle quali egli non poteva avere coscienza immediata e, che soltanto nei momenti culminanti del suo rapimento lirico egli riusciva a tradurre in espressioni perfette. Solo al termine della sua vita egli giunse a capirlo.

E ora vi dirò qual è il suo segreto. Ho detto duemila anni avanti Cristo; perché? Su D’Annunzio e la Grecia c’è un articolo di un grande filologo italiano, il più grande che noi abbiamo avuto dopo il Vitelli – e per tanti riguardi anche più grande del Vitelli: Giorgio Pasquali che, se non è stato mio maestro diretto, lo è stato nella ininterrotta conversazione di molti anni. Giorgio Pasquali vide che, se c’era una cosa di cui D’Annunzio poteva vantarsi, era la conoscenza della Grecia. Il greco e la Grecia egli li conosceva “più e meglio del professionale Pascoli”.

La sua era una conoscenza diretta. Egli “aveva bevuto alla fonte”, dice Pasquali. Solo che la grecità di D’Annunzio non è la grecità classica, è la grecità ellenistica. Il paesaggio, che è uno degli elementi costitutivi della poetica dannunziana, è un fatto ellenistico; il senso dell’arte come gioco è anch’esso ellenistico. Ed ellenistico è anche quel senso dell’infinito che egli ha, quel suo trasmutarsi come Proteo in tutte le forme, quel perdere i limiti del proprio essere nei corpi della natura, nelle cose della natura. Questo dice Pasquali.

Partendo da queste osservazioni, che erano precise, ma non completamente esatte per quanto riguarda l’appartenenza di D’Annunzio all’esperienza greca e rileggendo Laus Vitae, il primo libro delle Laudi, che è la sua maggiore composizione poetica, quella in cui egli ha messo il maggiore impegno, anche se non è la più perfetta, perché la più perfetta rimane Alcyone, rimasi sorpreso da questo fatto. D’Annunzio va in Grecia. In quel poema, in Maia, egli racconta il viaggio in Grecia compiuto nel 1895 su un panfilo di Edoardo Scarfoglio. Insieme con Scarfoglio medesimo, col suo traduttore francese Hérelle e con un parlamentare abruzzese, Marcantonio, amico e finanziatore di D’Annunzio. Una delle tappe del viaggio è Olimpia, la valle dell’Altis. A Olimpia ci sono i resti della più pura arte greca, più pura nel senso della forma. Le opere del tempio di Olimpia, le sculture del frontone, di cui abbiamo solo dei resti – e uno di questi è il formidabile Apollo – sono del primo trentennio del V secolo, quindi del periodo culminante in cui l’arcaismo trapassa nella classicità vera e propria e che si concluderà con Fidia.

Ora, nel museo di Olimpia, la statua più significativa per chi voglia intendere la Grecia in ciò ch’ebbe di unico e che solo Firenze e la Toscana riuscirono a ritrovare per misteriosi tramiti, è appunto l’Apollo, di cui non si conosce l’autore e che si attribuisce appunto al Maestro di Olimpia. Ora, che cosa accade lungo l’itinerario ellenico del poeta? Accade che egli passa accanto a questa statua senza vederla, accade che egli non abbia occhi per l’Apollo. Ciò che egli vede in sua vece è l’Ermete di Prassitele. Hermes che regge fra le braccia un fanciullo. E ad Ermete D’Annunzio dedica il più lungo degli inni di Maia, circa 700 versi.

Che cos’è Ermete e perché una così straordinaria simpatia per questo dio? Ermete non è un dio greco, è un dio pre-greco. L’Olimpo greco è costituito da divinità che hanno i tratti greci, in parte e da divinità che invece appartengono allo strato pre-greco, che erano oggetto del culto degli abitatori della Grecia prima che giungessero dal Nord queste popolazioni guerriere portatrici di una religione celeste.

Nella Grecia mediterranea la religione era ctonia, veniva cioè venerata una Dea Madre, Dea della vita e della morte, che troviamo un po’ ovunque nel Mediterraneo, ed è sempre la stessa dea, che a volte è unita a un paredro, che è insieme amante e figlio, a volte è congiunta in una diade con la figlia, ed è la Terra Madre che genera ogni anno i suoi frutti. Demetra e Kore sono l’esempio classico di questo tipo di divinità. Una religione di tipo matriarcale, mentre quella che portavano i Greci venuti dal Nord era una religione patriarcale. Agricoltori e navigatori i Mediterranei, guerrieri invece e allevatori di cavalli questi Greci venuti dal Nord.

Ma questi Greci, questi Elleni, che alla Grecia hanno dato il nome, questi Achei, avevano in sé qualcosa, portavano qualcosa con sé a cui noi dobbiamo tutta la nostra civiltà. Se noi oggi siamo qui riuniti e possiamo parlare questo linguaggio e tenere una simile celebrazione, in una sala così formata, lo dobbiamo esclusivamente a questi barbari allevatori di cavalli e guerrieri, i cui gli ultimi rappresentanti noi vediamo nell’Iliade. Questi uomini fanno la guerra per la guerra, combattono per la gloria, come quell’eroe del Boiardo che era guerriero e mai non aveva pace. Sono guerrieri e mai non hanno pace, perché nella guerra essi realizzano per un attimo la loro virtù, toccano o sfiorano quel limite d’eccellenza che è concesso all’uomo, e fin dal principio per essi la morte è  scontata. La morte è una specie di trasfigurazione del loro essere terrestre.

Questo tratto c’è in D’Annunzio. Il D’Annunzio combattente combatte certo nel nome dell’Italia, perché c’è stato un amore profondo di D’Annunzio per l’Italia, l’Italia terrestre, l’Italia con i suoi monti, con le sue acque, con i suoi mari, con le sue selve, con la sua storia millenaria. Ma soprattutto, dell’Italia, egli ha amato la Toscana, che è il fiore di tutta la storia italiana. È in Toscana che ha scritto le opere maggiori e col paesaggio toscano s’identifica il paesaggio dannunziano. Questo elemento c’è, ma soprattutto la guerra D’Annunzio l’ha sentita come guerra in sé e per sé, ed ha amato sempre il rischio ed ha sempre cercato la morte.

Uno dei suoi ultimi pensieri è precisamente questo: che la cosa più facile di questo mondo è la morte violenta; e il destino lo ha tradito, perché è morto nel suo letto, ed è morto nella maniera più banale in cui possa morire un uomo. D’Annunzio cercava la morte gloriosa. Questo è un elemento che lo collega, non per riflessione, non per temperamento, ma per qualche cosa di misterioso che era al fondo del suo essere, con questa Grecia eroica.

Ma questa Grecia eroica rimane marginale di fronte ad un’altra Grecia, la Grecia mitica. Ed è qui che Ermete è al centro del mondo di D’Annunzio.

Che cos’è Ermete? Ermete era rappresentato a Cillene da un semplice sasso, una pietra. E le erme non erano se non delle pietre quadrangolari con in cima la testa di Ermete, e falliche il più delle volte, che servivano a delimitare le strade; e sotto questo aspetto Ermete è il dio della strada. Ma Ermete non in questo è singolare; è singolare nel fatto che, a differenza di tante altre divinità che pure sono divinità sessuali (come sono tante divinità delle religioni arcaiche, del mondo primitivo), e per le quali è il problema della propagazione della vita quello che si presenta più urgente, e ne viene così minimizzata la potenza che nella vita si esprime, a differenza di queste divinità Ermete è e rimane fanciullo, la sua virilità è la virilità aurorale del fanciullo, ed egli rimane sempre dio fanciullo e come tale viene rappresentato.

Gli amori di Ermete sono di due tipi: o insegue le Ninfe, (Opaon è il seguace delle Ninfe, di cui fa rapina) o si unisce con Afrodite per generare Eros, e una volta con la dea di sotterra, con Ecate e questa unione con la dea sotterranea giustifica il fatto che Ermete è psicopompo, accompagna cioè le anime all’Ade. Quindi egli è il dio del primo apparire della vita e del suo finire. Con lui è l’alba della vita e con lui è il vespero della vita. Ed è il dio notturno. Ed è il messaggero degli dèi, grato, dice Orazio, agli dèi celesti e agli dèi inferi, ed agli uomini anche.

Ermete, come dio fanciullo e come dio di questa virilità appena nascente, floreale, è dio momentaneo, che gioca, che fa di tutto il suo operare un gioco. Dio inventivo per eccellenza, dio di tutti i sotterfugi, di tutti gli inganni, protettore dei ladri, dio della menzogna e dell’eloquenza, che l’eloquenza apprende agli uomini ed è dunque anche dio degli avvocati, del commercio. Insomma, Ermete è colui che si muove in tutte le dimensioni della realtà e che da tutte sfugge.

Nell’ Inno omerico a Hermes, che è una delle pagine più belle che noi abbiamo della letteratura greca, Ermete, nato all’alba, a mezzogiorno aveva già raggiunto la sua relativa maturità. Appena nato, balza fuori dalla culla, esce dalla grotta e incontra la tartaruga. Le dice: “Fuori si sta male, vieni dentro con me”, e così se la porta nella grotta, la svuota con un ferro, estrae e distende le minugia e inventa così la lira. Inventa la lira e cosa canta? Canta gli amori furtivi della madre e del padre, di Maia e di Zeus (e Maia è la Madre, la Terra) e lo fa con le parole e nelle forme motteggevoli e ironiche che si usano nei conviti dei giovani. Poesia giambica, poesia erotica. E poi ruba i bovi di Apollo e inganna Apollo e canta una seconda volta, davanti ad Apollo. Canta la generazione degli dei e delle cose e Apollo rimane incantato, egli, che pure è il dio delle Muse, che guida i cori delle Muse. Apollo rimane ammaliato da questa musica di Ermete, ed Ermete gli fa dono della lira ed Apollo gli fa dono della mantica, cioè della capacità di profetare. Ma egli potrà profetare soltanto in sogno e i suoi sogni saranno veri e falsi. Insomma, Ermete è il dio ambiguo per eccellenza.

Tutti questi elementi si trovano in D’Annunzio e spiegano in modo formidabile tutta l’arte di D’Annunzio e la vita di D’Annunzio. Gli amori di D’Annunzio sono anch’essi di tipo ermetico. L’amore per lui fu sempre un gioco, ma non un gioco quale può essere per l’amatore comune, è un gioco che è sentito e vissuto come qualcosa di primigenio e di cui egli non ha mai potuto sentire né vergogna né pentimento. Soltanto la dissipazione fa sì che egli si ritragga in periodi di ascetico, frenetico lavoro.

D’Annunzio è un momentaneo ed ha il senso della momentaneità che è proprio di Ermete. Tutta la sua poesia è fatta di questo senso del momentaneo. Ha l’inventività e la penetrante intelligenza di Ermete, un’intelligenza che si ferma al particolare e non riesce mai a vedere una forma nella sua totalità. E infatti, quello che manca in D’Annunzio è la costruzione. La sua prosa, come la sua poesia, procedono in ordine seriale. E il suo amore per i vocabolari – nessuno lesse i vocabolari con la passione con cui li leggeva D’Annunzio – era non amore di grammatico, era amore ermetico, perché in ogni parola sentiva qualcosa di nuovo, scopriva sensi inediti, era per lui una specie di infinito mare di possibilità. E ci sono poesie che sono addirittura costruite col linguaggio del vocabolario. L’onda, è stato dimostrato, non fa che mettere in versi la voce “Onda” del Dizionario nautico del Guglielmotti. D’Annunzio possiede la, diciamo, sfrontatezza, la mancanza di pudore (ma non certo in senso deteriore) che sono proprie di Ermete. Non si ferma davanti a nessuna espressione, senza tuttavia mai cadere nella volgarità.

D’Annunzio ha, come Ermete, l’amore per gli animali. Ermete è un dio che protegge gli animali e li ama. E D’Annunzio dichiara che non si può capire la sua umanità se non si tien conto del fatto che egli è stato amato come nessuno, fino in fondo e senza cautela, dalle donne, dagli animali e dai bambini. E tutti sanno dell’amore che D’Annunzio ebbe per i cavalli e i cani. Vi leggerò qui una pagina del proemio della Vita di Cola di Rienzo, che mostra questo senso dell’animalità, il senso primigenio dell’animalità che c’è in D’Annunzio.

“Il palafreniere curvo sulla lettiera asciutta, nell’ombra della pancia zaccherosa, equello che stropicciava il fianco schiumante con una. manciata di paglia per ogni mano, e quello che tuffava la spugna nella secchia tenendo la coda o il piede, ognuno accompagnava la bisogna con un certo soffiare ch’era come un suono lieve di persuasione e di blandimento, onde talvolta si formava non so che parola comunicando all’ inquietudine della bestia sensibile la pena e l’amore dell’uomo. Credi tu ch’io fossi più ebro di me quando nel Deserto d’Arabia alla sosta della sera abbiadavo con un po’ di crusca o con un pugno d’orzo il mio stornello impastoiato, cominciando la luna appena a segnare tra immensità ed eternità il miracolo della mia ombra? Anche là, in quella stalla chiusa, tutto era lontananze e apparizioni dello spirito, tutto era disegni e scritture dello spirito, azioni mutue tra me e gli iddii subitanei. Anche là sentivo il mio cuore divenire più profondo e il mio occhio riacquistare la limpidità infantile, come nel deserto, come su la spiaggia pisana, come intra du’Arni, come nel Gombo, come nella Versilia, come quando nasceva, dal mio respiro Undulna. Era. ben là. Undulna, trasfigurata in una grande cavalla baia che meritava il nome della pieghevole dea “dai pie d’ali”.  Non docile, abbassava le orecchie, increspava le labbra mostrando le gengive, guardava a traverso mostrando il bianco venato di vermiglio; ma per entro i suoi belli occhi biechi scoprivo l’essere sconosciuto e divino che mi spiava come io un giorno tra le canne del Serchio spiavo il Centauro.”

È un senso, questo, della vita e dell’essere che è assolutamente nuovo nella letteratura occidentale. Non c’è una pagina simile a questa, e questa, credo, è una delle pagine chiave per capire il mondo di D’Annunzio, l’essere profondo di D’Annunzio. È in questo stesso proemio che egli scrive: “Hai mai pensato tu che imbestiare – riprendendo una frase del Tasso – che imbestiare sia trasumanare? …Vedo che il mio segreto lirico è in una sensualità rapita fuor dai sensi.” E continuamente egli ritorna su questo motivo, che non può poetare, non può trovare la sua poesia, se non sentendola provenire da questa sensualità che costituisce il fondo abissale del suo essere. Ma attenzione, non si tratta della sensualità comunemente intesa, della sensualità che cade nel vizio, si tratta della sensualità di un essere che rivive in sé qualche cosa dell’aurora della vita. C’è un’aurora fisiologica della vita, che è di questo tipo, aperta a tutte le possibilità, che muove gioiosa ed è fuori del tempo.    E, allora, il fanciullo. Se D’Annunzio non sentisse in sé il fanciullo, non ritornasse di continuo a questa sua innocenza di fanciullo, potrebbe essere confuso con uno qualsiasi dei poeti erotici. E invece egli non ha niente a che vedere coi poeti erotici. Il suo erotismo viene sempre bruciato, superato, trasfigurato, si traduce sempre in ascesi, portando al suo limite il senso della morte. Egli cerca abissi profondi, e la sua è una ricerca di natura religiosa a rovescio, se così si può dire, abissale, ma che cerca il principio primo della vita.

L’innocenza di D’Annunzio. Nella valle dell’Altis, ad Olimpia, prima ancora della rivelazione di quella mirabile statua che è l’Ermete di Prassitele, nella notte ha una rivelazione che veramente è la creazione di un mito. Dorme in riva all’Alfeo, con le sue pecore, un pastore fanciullo; poco prima egli ha sentito la rivelazione del comando, il responso di Giove:

«Combattere e vincere i mostri

non ti varrà su la Terra

se trasfigurarli non sai,

Aedo, in fanciulli divini».

E i campani d’un gregge

sonavan tra i marmi abbattuti.

Subitamente si tacque

in me l’audace tumulto,

come se la preghiera

accolta mi fosse e compiuto

il desiderio e mutato

già l’orizzonte in cintura

più bella e mondata la Terra

e disvelata la faccia

di Pan che conduce

nei tempi il Ritorno eternale.

E un fanciullo pastore

m’apparve, il pastore del gregge:

simile a riflesso di stella

in tremule acque m’apparve

il puerile sorriso.

Al lume dei cieli

biancheggiar vidi i suoi denti

puri nel saluto venusto:

sentii la rugiada cadere.

Volto avea Boote l’obliquo

timon del plaustro fra i Trioni.

Sì lucida era la notte

che gli arbori su le colline

leggere di là dall’Alfeo

segnavano l’ombre

visibili. Tanto era dolce

il lineamento dei gioghi

che parea, come il fiume,

continuamente fluire.

Giaceva sul dorico tempio

il gregge lanoso;

gli umili velli ed i marmi

augusti in tepore spirante

parean convivere. Tutto

era plenitudine e pace:

non morte, non ruina:

armonia di forme perfette,

concordia del Coro infinito.

Necessità, come l’urto

del piè nella danza tu eri!

Su l’erba colcato il pastore

poggiava il florido capo

al tronco d’un platano. E quivi

io vigile stetti al suo fianco

in silenzio. Ed èramo volti

ai monti d’Arcadia, all’indizio

del di nascituro. E il fanciullo

mordeva mentastro odoroso,

scendendogli il fiore del sonno

su’ cigli virginei. Caddegli

il ramicello selvaggio

dalla bocca aulente che al fiato

eguale si schiuse. La valle

parve tutta allora una cuna

divina per quella innocenza.

Vidi su i vertici l’Alba

avvolgere al piè della Notte

il lembo del suo primo velo.

D’amore tremai come s’ella

ver me si piegasse e dicesse:

«O tu che m’attendi, io ti cerco!».

Queste due pagine che vi ho letto, nella prosa e nella poesia di D’Annunzio, mi sembrano fra le più significative. Ma non s’intendono se non si svela il senso del tempo che D’Annunzio ebbe. Qual è il senso del tempo che ebbe D’Annunzio? Per noi il tempo è lineare: ieri, oggi, domani. Ogni istante fa cadere l’istante che lo precede. Nell’esperienza religiosa il tempo è sferico e verticale. Come dice Dante,  Dio è colui “ove s’appunta ogni ubi ed ogni quando”. Tutto il tempo e tutto lo spazio sono racchiusi in quel polo che abbraccia e comprende l’universo.

Il tempo di D’Annunzio è un tempo momentaneo, che fluisce nell’infinito, senza nessuna direzione, senza un prima e senza un poi, e che ripete sempre il medesimo miracolo, perché è il miracolo di questa eterna, risorgente vitalità.

Io nacqui in ogni alba che si leva.

Ogni mio risveglio

fu come un’improvvisa

nascita nella luce.

E, alla fine della sua vita dirà: che significa per me immortalità? Poiché io rinacqui ogni mattina.   Questo è un senso dell’essere. Non è una convinzione, non dipende da una filosofia, da una riflessione, no. D’Annunzio ha questo senso del mondo. Misterioso. E allora due cose non può comprendere: la morte e Dio quale noi lo pensiamo. E rimane fermo all’immagine dei suoi sedici anni e ritrova il culmine della sua poesia quando ritrova quella fanciullezza innocente, fanciullezza virile ma innocente, pura, che è della natura del fiore, una specie di sosta, di pausa nella vita.

Quando l’uomo cresce, ecco ad un certo istante pare che si fermi, ha raggiunto finalmente questo boccio, la sua forma perfetta. Non è ancora l’uomo, ma in lui è già potenzialmente tutto l’uomo, è la forma più bella dell’uomo, la forma più pura dell’uomo, ha dinanzi a sé tutte le possibilità dell’uomo.    È un momento di sosta, il momento del fiore. Il fiore, questa cosa misteriosa  della natura, inutile, che non serve al frutto, che non serve alla vita, che testimonia di qualcosa che rende ancor più misteriosa e incomprensibile la nostra esistenza, ma verso cui tutti aneliamo nel ricordo e nella speranza. Il fiore, che alcune religioni fermano per sempre e che è eterno nella sua integrità, anche se dura un’ora e poi sparisce, ingoiato dalla fola di vento, abbattuto dalla pioggia. E la cosa incomprensibile, in questo mondo, è che i fiori muoiano.

I fiori non possono morire – è la poesia di D’Annunzio. Si dovrebbe farla questa antologia, perché ancora nessuno ha capito D’Annunzio. Non esiste un libro su D’Annunzio. Perché si è guardato a lui muovendo dall’ambito di esperienze che gli sono totalmente estranee, che egli ha sofferto come una veste impostagli dalla storia e da cui è venuto fuori in momenti di empito lirico, di rapimento lirico, con se stesso e contro se stesso, e che è stato il martirio lento di tutta la vita, un martirio non confessato, tale era la potenza della vitalità che era in lui.

Ma la sua poesia? La poesia che non muore mai? Questi professori, questi critici, che dicono quello che vogliono, ma non sanno niente, forse che loro capiscono Dante, vivono Dante, sentono Dante? Ma no. Dante è morto, per tutti, tranne per quell’unico che in una notte può dimenticare il sonno e può sfondare le pareti della sua povera stanza per rivivere quella visione immensa.

I poeti non appartengono alla vita di tutti i giorni, non sono soggetti alla vita di tutti i giorni; questi giudizi non li toccano veramente. Attendono sempre, di volta in volta, che qualcuno ricanti le loro poesie, dia esistenza con la propria esistenza, con la propria sofferenza, al sogno che essi in un momento sognarono.

Voglio finire con le parole che egli scrive nel Notturno. Dice: “Il cuore mi batteva di disperata gioventù. Ringiovanisco d’un tratto con un aspetto tirannico e folle. Le linee si ricompongono in una figura di spiritualità intenta e attonita. È un viso di giovinetto. È il mio viso di sedici anni.” E nel Libro segreto, qualche anno prima della morte: “Venite a guardare il mio viso due o tre ore dopo la morte… Allora soltanto io avrò il viso che m’era destinato, immune dagli anni, dalle fatiche, dai patimenti, dagli innumerevoli eventi che forzò, forza e forzerà pur in estremo il mio disperato coraggio. Allora soltanto, sino alla terza ora, sarà il mio viso la cima sovranamente effigiata della mia anima bella: il viso della giovinezza sublime, di là dall’opera, di là dalla gloria, la maschera del porfirogenito”. Cioè a dire, del figlio dell’imperatore.

Questo è D’Annunzio.

CARLO DIANO

[1] Il testo è la trascrizione della registrazione di un intervento tenuto “a braccio” da Diano a una riunione conviviale a Padova nel 1963 e ripropone nel suo senso, con alcune modifiche e  in forma molto più concisa,  quello di poco precedente, D’Annunzio e l’Ellade, tenuto, sempre “a braccio” al  Convegno L’arte di Gabriele D’Annunzio – Venezia-Gardone Riviera-Pescara, 7-13 ottobre 1973 contenuto (pp.51-67) negli Atti, pubblicati da Mondadori nel 1968,  curati da Emilio Mariano. Colpisce la fluidità del discorso, pur essendo stato porto senza supporti scritti, ad eccezione dei due testi dannunziani. Diano non leggeva mai un testo  nelle sue conferenze, nemmeno in quelle che teneva in francese, tedesco o svedese. Dunque, chi leggerà il testo poi trascritto dalla registrazione e pubblicato negli Atti del Convegno su D’Annunzio leggerà due testi diversi, ma simili nella sostanza.  Questo è volutamente più “semplice” dato il contesto conviviale in cui è stato tenuto.

(C)2014 by Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA



Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :