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Carlo Emilio Gadda: Incontri con il prof. Aldo Vallone (2/2)

Creato il 31 marzo 2014 da Cultura Salentina

Carlo Emilio Gadda: Incontri con il prof. Aldo Vallone (2/2)

31 marzo 2014 di Augusto Benemeglio

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Carlo Emilio Gadda
6. A lui non interessava la fama e il successo
“Il linguaggio di Gadda vitalizza tutto ciò che altrove agonizza, è vita, è storia, è religione, è arte, ci fa conoscere, ci fa capire ciò che siamo diventati. E’ un linguaggio senza pari nella letteratura moderna. E’ il narratore che ha messo su la più grande orchestra letteraria di scrittura del novecento, ha liricizzato le idee meno musicali, ha naturalizzato la cultura più artificiale, ha trasformato ogni materia in narrazione. Ha cambiato i connotati della nostra letteratura. Anzi, le dirò di più: se vogliamo capire questo nostro secolo caratterizzato politicamente dal comunismo e dal nazi-fascismo, se vogliamo capire il fenomeno sociale dell’avvento della masse a protagoniste folli, o la nevrosi che ha travolto le menti più fragili e insieme le più sensibili; se vogliamo capire il fenomeno che tuttora perdura della corruzione generale, dei ricchi e dei poveri, e di una dissennatezza che non ha risparmiato nessuno, non possiamo prescindere da Gadda e dalla lettura del “pasticciaccio”.

A me, onestamente, sembrava che il professore esagerasse, e Aldo Vallone se ne accorse.
”Quant’è che non legge, o rilegge Gadda? Provi a rileggerlo, e ancora rileggerlo, poi mi saprà dire… Gadda non scrisse mai per far soldi, ma per necessità. Ci fu un tempo che fece letteralmente la fame, era disperato. Aveva quasi sessant’anni, una laurea in ingegneria col massimo dei voti, ma non aveva lavoro, e neppure una lira in tasca. Le sue opere, pur apprezzate da una ristretta cerchia, non si vendevano neanche a regalarle. Ma a lui non interessava la fama, la notorietà, non ci teneva affatto. E quando arrivò, proprio con il “Pasticciaccio”, si può dire che gli fece passare la voglia di scrivere. Era enormemente infastidito dalle attenzioni, curiosità, autografi, ecc. che ora riceveva. In realtà lui aveva sempre riso dello sciocchezzaio della borghesia romana, o milanese, che parlava di lui come di uno scrittore barocco, o grottesco (lo stesso Moravia disse che le sue parole avevano la “gobba”), e di una sua lingua “macaronica”, licenziosa, se non oscena addirittura”.

7. Il pensiero dell’esagono
Già, professore. Per non parlare delle sue proverbiali digressioni che fanno dimenticare il nucleo centrale della storia, come ad esempio il sogno del brigadiere Pestalozzi, l’ambiguo topaccio-topazio che fugge da tutte le parti in cerca della “topa”, in cui vorrebbe rientrare; l’importanza degli alluci nella pittura italiana, la gallina che scacazza, l’appuntato che scorreggia, il vecchio miserabile che muore nei suoi escrementi, e via di seguito, digressioni anche piene di odori, come si vede.
“Giusto. Bene, perfetto. E’ quella la grandezza di Gadda, in cui la struttura è più potente dei contenuti. Non ci sono confini, viaggia all’infinito, viaggia nell’universo-vita, così un inconsapevole ligio brigadiere dei carabinieri sogna la massima trasgressione sociale, l’incesto, perché vorrebbe rientrare nel grembo materno, ma noi tutti vogliamo rientrare nel grembo materno, quando la vita ci ferisce, tutti vogliamo tornare all’epoca del prima della nascita. E poi un vecchio miserabile muore in rappresentanza d’ogni morte, che non ha nulla di eroico, è la morte e basta, urina, feci, sangue. Nell’Aldalgisa Gadda aveva parlato del pensiero dell’esagono per indicare la geometria segreta e vincolante della sua originale narrazione. Nel pasticciaccio allarga i confini, perché vuole complicare il panorama complessivo, far confluire gli interrogativi come un fiume con mille diramazioni provenienti da tutti i livelli possibili ed ecco la necessità del molteplice, del pulviscolare, in questo giallo che è una grande metafora dell’esistenza. Le digressioni sono in realtà i dettagli del nostro vivere, quella digressione ti blocca su un dettaglio che sembra trascurabile, ma è essenziale; quell’altra ti spinge oltre, nel circolo vizioso della conoscenza orfana della verità. Insomma, quanto più sai, tanto più ignori, come diceva Socrate”.

8. Un tentativo di strappare alla morte la lingua italiana
Per finire, Professore, che cosa fa veramente grande Carlo Emilio Gadda, in questa ridda infernale del Pasticciaccio che mi ricorda un po’ la peste manzoniana, in questi frammenti, torsi narrativi dell’esistere, in questi circoli che non si chiudono, in queste tragiche curvature dell’orizzonte, in questa magica acrobazia mentale sempre con il rischio di precipitare ad ogni parola come un equilibrista folle che cerca l’inafferrabile?
“Vede, il Pasticciaccio ha parecchi livelli di conoscenza, è un po’ la summa della sua arte, trasmette luce, elettricità, illumina ogni particolare finché non brucia. E’ il tentativo di strappare alla morte una lingua italiana marmorizzata, metallizzata, ossificata, resuscitare parole, suoni, musica. Ma è anche un gran bazar, lei ci può trovare di tutto, anche gli odori, o meglio le puzze e il fescennino, il grottesco e l’umorismo più spietato, un riso di alto livello ma sul crinale fra comico e tragico. Come ha detto lei, è una peste manzoniana portata ai nostri giorni, un testo estremamente attuale che tira fuori ininterrottamente i bubboni di una società in decomposizione, una società senza più ideali; è una peste che non vedrà il miracolo della pioggia che lava i mali. Il nostro male è invisibile e incurabile. Quella del nostro secolo è una peste nella quale è impossibile salvare l’anima”.

9. Il quadro di Courbet
“Ma è anche un romanzo paradossale, di amore e morte, tanto per intenderci. Il commissario Ingravallo è invaghito di Liliana, la vittima, che forse è lesbica, con tutte quelle “nipotine” a getto continuo che vanno e vengono nella sua casa in via Merulana. Al commendatore Angeloni piacciono i giovani garzoni che gli portano il prosciutto a domicilio. Ha mattutini sogni erotici incestuosi il brigadiere Pestalozzi, la Ines guida le indagini verso la soluzione del caso, a causa della gelosia, dell’amore tradito del proprio ganzo. Ci sono tutti i modi d’amare, permessi e proibiti: omosessualità, necrofilia, onanismo e incesto. Per Gadda, che non si è mai capito di che tendenze fosse (non si sposò mai, nessuna indiscrezione è trapelata circa i suoi gusti sessuali), va bene tutto. Tutta la vicenda del pasticciaccio parte da quel corpo assassinato di Liliana, alla quale l’assassino ha sollevato le gonne sul petto per mostrarne il sesso nudo. Sembra di rivedere il quadro di Courbet: l’origine. E’ lì infatti l’origine di tutto, nascita, amore e morte. Romanticismo? No, l’esatto contrario, la celebrazione funerea del romanticismo.
Sì, è vero, Gadda è anche barocco. Scrive barocco, perché barocca è la vita quando è forte l’odore della morte e ancora più intenso è il desiderio di vivere, Gadda è spesso satirico, e pieno di rabbia e sdegno, scrive con ira, ogni pagina è liquida: sangue, lacrime, sudore, feci, urine e tutti gli altri umori, è un mare di parole salate dove quotidianamente noi ci bagniamo, ci sbracciamo, ristagniamo.

10. Roma barocca
“Su tutto, però, alla fine, c’è il riscatto di un pathos intenso e la sua profonda pietà per la intimità violata, pietà per questo immenso, smisurato, infinito angoscioso ridicolo spettacolo che è l’umanità stessa. Sì, ciascuno di noi è un povero pasticciaccio umano e ciò, forse, lo indurrebbe a “ripentirsi, quasi”. Pentirsi di che? D’esser nato, o di aver scritto il Pasticciaccio? Il fatto è che Gadda lì finisce di scrivere, o quasi. Dopo quel romanzo incompiuto, non scriverà più nulla. O quasi. Ergo, senza letteratura, la vita è nulla, o quasi.
Gadda morirà a Roma diversi anni dopo, vivendo in disparte, e in perenne difesa dagli ammiratori e dai mass media. E non si capisce questa sua scelta definitiva di vivere e morire in una città che lui stesso aveva definito caotica, indisciplinata, di nessuna consistenza e solidarietà sociale, anche se era innamorato dei suoi monumenti, del suo cielo e dei sonetti del Belli. Ma Roma era barocca, era un “pasticciaccio”, appunto, che lui avrebbe pietosamente e ferocemente investigato fino alla morte, avvenuta il 21 maggio 1973”.

11. Le due sostanze fondamentali
E’ un’evocazione galatinese di trent’anni fa che ora va man mano scomparendo dalla memoria, vedo la nobile figura di Aldo Vallone, gentiluomo dall’aria sempre un po’ assorta, corpulento, ma agile nei movimenti, con un leggero accento più napoletano che salentino (ha vissuto quasi tutta la sua vita a Napoli), e il soffio vivo di un’intelligenza acuta ironica e geometrica, che promana da ogni suo gesto, che si accomiata dalla mia stanza bianca e subito prendo il libro e comincio a rileggere il “Pasticciaccio”. M’imbatto subito in quel mezzo tonto di Ingravallo, nella sua parrucca da giungla nera, metà commissario e metà filosofo, che vive di silenzio e di sonno, e dice tra sé e sé: “Le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia di un unico motivo: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti”.
E man mano che proseguo nella lettura riesco a capire finalmente perché ho portato con me questo libro, in questa clinica un po’ antiquata e demodé, dove sto ormai da giorni e giorni e tutto si riduce a feci e sangue, sostanze ambivalenti, tragiche e grottesche, eroiche e ridicole, drammatiche e comiche della vita, anzi – direbbe il commissario Ingravallo-Gadda, e con lui anche il Prof. Vallone -: sono le due sostanze fondamentali di una vita, che per il resto, per tutto il resto è solo apparenza.

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