Carlo Lizzani e Giovanni Berardi
È morto Carlo Lizzani. E precede solo di pochi giorni la morte dello sceneggiatore Luciano Vincenzoni e dell’attore Giuliano Gemma. Come dire, un pezzo davvero storico, davvero familiare del cinema italiano ha abbandonato il proscenio per sempre. A Fondi, solo un anno fa, alla serata inaugurale della undicesima edizione del Festival dedicato al regista Giuseppe De Santis (che Lizzani avvertiva come un suo maestro e che per questo motivo non aveva avuto dubbi quando l’ Associazione Giuseppe De Santis, nelle persone di Marco Grossi e Virginio Palazzo, storici fondatori dell’associazione ed ideatori del FondiFilmFestival, lo aveva proposto come Presidente) lo avevamo salutato. E fu l’ultima sua presenza a Fondi, lui che non aveva mai voluto saltare una edizione, quest’anno lo aveva fatto. A Roma Lizzani aveva i suoi enormi problemi, che erano, come ci aveva detto, i suoi novantuno anni, ma soprattutto la malattia della moglie. L’epilogo, infine, è una storia tristissima. Oggi, mettere insieme la filmografia di Carlo Lizzani significa raccontare l’Italia, la sua storia e la sua politica, oltre che il cinema italiano nella sua poliedricità e nella sua politica culturale. D’altronde proprio la storia e la cronaca sono state una fonte concreta del suo cinema: Acthung! Banditi (1951), Cronache di poveri amanti (1953), Il gobbo (1960), Il processo di Verona (1963), L’amante di Gramigna (1968), Mussolini ultimo atto (1974), Fontamara (1980), ma anche Caro Gorbaciov (1988), per riuscire a comprendere davvero le ragioni della fine del comunismo nel mondo ed Hotel Meina, 2008, dove raccontava la prima strage di ebrei compiuta in Italia, dopo l’armistizio dell’otto settembre, sulle sponde del lago Maggiore, dove appunto era situato l’ hotel.
Diceva Lizzani: “Ho fatto questo ultimo film, Hotel Meina, perché trovo, oggi ancora di più, che il cinema ha sempre il dovere della memoria”. Lizzani a Fondi era ormai una presenza continua, e da qualche anno il comune gli aveva anche riconosciuto la cittadinanza onoraria. Fondi è la patria del regista Giuseppe De Santis, uno dei padri storici del neorealismo, e Lizzani, come ha sempre ricordato, è stato uno dei suoi allievi e storici collaboratori, insieme ai futuri registi Gianni Puccini ed Elio Petri. Con De Santis, Lizzani ha collaborato alla sceneggiatura di Caccia tragica (1947), di Non c’é pace tra gli ulivi (1950), di Riso amaro (1949), ormai storico capolavoro del cinema neorealista, un titolo di cui Lizzani andava davvero fiero, la sceneggiatura infatti aveva anche ricevuto la nomination per partecipare alla notte degli Oscar ad Hollywood. Riso amaro è un film che Lizzani prendeva sempre ad esempio per interpretare storicamente e culturalmente il periodo del neorealismo. Certo l’esperienza con De Santis era stata, per Lizzani, allora giovane critico cinematografico, oltremodo fondamentale. Lavorare con De Santis diceva, aveva significato incontrare e frequentare personalità importantissime del cinema e della cultura come il regista Michelangelo Antonioni, il poeta Libero De Libero, gli scrittori Corrado Alvaro, Cesare Zavattini, Mario Alicata, Massimo Mida Puccini, il pittore Domenico Purificato, puri intellettuali come Antonello Trombadori e come Pietro Ingrao, diventato dopo un politico stimato ed autorevole. Lizzani, sul palco di Fondi, un po’ per spiegare anche la genesi del film, ricordava come la Lux, casa di produzione di Riso amaro, una volta approvata l’idea del film, lo mandò insieme a De Santis nel nord Italia, nelle risaie del Vercellese, a fare veramente una inchiesta sulle mondariso. Tornati a Roma, ricchi di notizie e di conoscenze, De Santis e Lizzani, dopo aver steso l’intero trattamento particolareggiato e realistico del film, realizzano così il soggetto originale, poi decisero la sceneggiatura filmica insieme ad altri sceneggiatori come Corrado Alvaro, Ivo Perilli, Carlo Musso, Gianni Puccini. Era questo insomma il modo formidabile di lavorare nel cinema neorealista.
Carlo Lizzani amava restare a Fondi, quando era chiamato infatti non mancava mai un appuntamento. Diceva: “Fondi mi rievoca storia, tracce del passato, leggende che davvero soddisfano la mia grande voglia di libertà e di conoscenza”. Non lo diceva, Carlo Lizzani, non lo avrebbe mai detto, perchè Lizzani era davvero sempre cortese, sempre gentile, sempre pacifico; ma un giorno, quando abbiamo esternato una idea, una teoria, una sensazione, sui ragazzi che iniziano oggi il mestiere di regista, ebbene questi ragazzi, dicevamo, massimo al loro secondo film, credono di essere Federico Fellini. Lui in quel contesto non aveva spiccicato parola, aveva preferito invece raggirare l’ostacolo e salutare Pietro Ingrao che si stava avvicinando. Subito dopo disse: “Io ho avuto la fortuna di nutrirmi, negli anni più belli, del vigore intellettuale di uomini straordinari, discutere con loro è stata certamente l’esperienza più eccitante e formativa della mia vita…”. La lezione ultima che Carlo Lizzani ci lascia, presentato alla recente Mostra del Cinema di Venezia e poi alla chiusura dell’ultima edizione del FondiFilmFestival, il 29 settembre, quindi solo pochi giorni fa, è l’interpretazione in veste di narratore del documentario di Gianni Bozzacchi, Non eravamo tutti ladri di biciclette, un film che è un ritorno netto e determinato all’epoca neorealista, proprio, come ha detto Lizzani, per raccontarlo alle giovani generazioni, a coloro che, di quel periodo particolare e fecondo proprio a livello mondiale, ne ignorano quasi l’esistenza. Ricordava Lizzani, l’anno scorso a Fondi, un poco tra lo scherzo e la serietà, quando cioè il progetto sulla carta aveva ancora il titolo serioso de Ti racconto il neorealismo, “che Bozzacchi probabilmente ha pensato a me per realizzare questo film perché mi ha individuato come l’ultimo sopravvissuto al movimento. Carlo Lizzani aveva iniziato la sua carriera nel cinema negli anni quaranta come critico cinematografico nelle riviste Bianco e Nero e Cinema, ed era rimasto un critico autorevole, in questo ambito ha scritto parecchi testi importantissimi per il settore, tra cui una Storia del cinema italiano, più volte riattualizzata nel tempo, un testo fondamentale ormai per chi si occupa della settima arte.
Ci aveva anche regalato una sua dotta biografia, importantissima, Il mio viaggio nel secolo breve . Quando nel 2010, alla nona edizione del FondiFilmFestival, Carlo Lizzani fu chiamato a premiare Susanna Nicchiarelli con il Dolly d’oro per il film Cosmonauta, complimentandosi con la giovane regista, ebbe comunque modo di osservare che “i talenti giovani come vediamo ci sono, la Nicchiarelli è senz’altro una di questi, e ci sono anche Sorrentino, Ozpeteck, Garrone, Luchetti, Soldini e ne abbiamo fatti di esempi, però c’è qualcosa che a loro non capita, cioè non pensare a fare massa culturale, alleanza, a fare comunanza di idee e di progetti”. Noi invece a ricordare a Lizzani che ormai, forse, i tempi non erano più quelli di cui lui parlava, purtroppo. Non esiste più, dicevamo, quel fertilissimo terreno ideologico su cui le giovani generazioni di registi e sceneggiatori potevano poggiare, felici e fiduciose, tali complicità comunicative. Ma continuiamo a crederci, perché è vero, sono state proprio quelle alleanze, quei taciti consensi, quella massa, allora possibile, di cui parlava Lizzani, nel grande cinema italiano degli anni cinquanta, sessanta, settanta, che hanno dato benzina alla costruzione dei movimenti culturali del cinema, primo fra tutti proprio quello del neorealismo e quello della commedia all’italiana. Ma anche tutto il grande cinema di genere italiano, cresciuto soprattutto negli anni settanta, assolutamente da non sottovalutare. Lo stesso Lizzani, infatti, ha portato la sua esperienza di autore nel cinema di genere realizzando opere che hanno semplicemente divertito, commosso, appassionato, esaltato, le platee.
Diceva Lizzani: “Si, infatti. Io, ad esempio, ho fatto cinema non solo perché mi piaceva narrare i grovigli di carattere storico-politico, ma anche perché volevo costruire l’azione, un azione sempre legata però al contesto sociale italiano, con un sottofondo sempre realistico, vedi ad esempio il mio film sul bandito Lutring, Svegliati e uccidi, oppure quello sulla banda Cavallero, Banditi a Milano, ma anche Barbagia (La società del malessere) sui sequestri di persona in Sardegna. Poi sulla loro scia, in fondo, ma anche dal successo commerciale de La polizia ringrazia di Stefano Vanzina è nata in Italia una serie di pellicole che ha dato origine ad un ulteriore movimento, quello del poliziesco italiano, o del poliziottesco anche”. Infatti, ribadiamo, i grandi successi popolari dei film, soprattutto di Banditi a Milano, come è stato anche ampiamente rivelato dalla critica dell’epoca, é venuto proprio dalla forza e dalla spettacolarità delle scene d’azione presente in gran quantità nel film. Poi il grande successo del genere western, che da Sergio Leone in poi aprì la strada ad un altro micro movimento culturale del cinema italiano, diede la disponibilità a Lizzani di fare esperienza e, soprattutto, di lavorare, anche in quel settore. Ricordava Lizzani: “Il mio western è senz’altro un episodio minore, questo almeno in un caso. Feci ad esempio nel 1966 Un fiume di dollari che non aveva molte pretese in preventivo; lo feci per dei motivi anche molto seri, umani: uno personale, legato proprio allo stipendio, ed uno per il produttore Dino De Laurentiis per ripagarlo di avermi fatto fare, in tempi davvero molto difficili, film come Il gobbo e Il processo di Verona. Invece, nel secondo western, Requiescant alzai un po’ il tiro, nel senso che mi sono servito della cornice western per una storia con ambizioni più vicine al mio senso di riflessione sulla storia e sulla politica. Requiescant ancora oggi lo riconosco di più tra i termini della mia filmografia”. Noi pensiamo che, aggiungiamo, la presenza nel cast di Requiescant di Pier Paolo Pasolini mutò la prospettiva del film e lo fece amare molto anche da un pubblico più adulto e più ricercato. Pasolini era già uno scrittore affermato e piuttosto temuto dal sistema di potere, finanche un regista noto e sicuramente scomodo per il cinema italiano più in generale. Nel cinema di Lizzani, non solo Banditi a Milano, Svegliati e uccidi, Barbaglia (La società del malessere), ed il western, genere proprio per antonomasia, rientrano a pieni meriti nello sterminato mondo del miglior cinema di genere, ma anche altri buoni titoli: Il carabiniere a cavallo (1961), Thrilling (1965), Roma bene (1971), Torino nera (1972),Crazy Joe (1973), Storia di vita e malavita (1975),San Babila ore 20: un delitto inutile (1976), Kleinhoff Hotel (1977), La casa del tappeto giallo (1983).
Dunque Lizzani ha raccontato la storia e la società italiana nel cinema con l’arguzia dello storico, ma sempre, in primo luogo, con la passione del regista cinematografico, raggiungendo livelli alti e bassi, sempre considerando il variare degli stili che nel tempo inesorabilmente progredivano, senza trascurare nemmeno il susseguirsi delle mode, quasi ‘gossippare’, e tenendo conto anche del divismo, che, in qualche maniera, è sempre la linfa del cinema. Non dimentichiamo, a questo proposito, la semplicissima, quasi leggera, genialità di Lizzani quando ha usato, come attori, cantanti importanti all’epoca della produzione di alcuni suoi film: Nicola Di Bari ad esempio, scelto quale protagonista di Torino nera insieme a Bud Spencer, un attore, quest’ultimo, sino ad allora eroe dello spaghetti western e del cinema divertentissimo delle sberle, e poi di Don Backy, cantautore tra i più noti, famosissimo per le sue belle canzoni, regalate anche a Mina e ad Adriano Celentano, in film come, appunto, Banditi a Milano ed anche Barbagia (La società del malessere)), film quest’ultimo in cui Don Backy faceva coppia con Terence Hill, un altro divo dello spaghetti western. Giuseppe De Santis, il maestro, diceva: “un film deve essere compreso tanto da un bambino quanto da un uomo adulto, tanto da un contadino della mai Fondi, quanto da un operaio di Sesto San Giovanni e non soltanto dal socio di un cineclub, o dal tale atro critico o da quel tale e tale intellettuale”.
Giovanni Berardi