Carmelo Bene: l’eccesso è adesso (prima parte)

Creato il 28 novembre 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Salomè (1972)

«L’idea di cinema contiene senza dubbio un cinema di idee, mentre non è vero il contrario». Questa dichiarazione di Carmelo Bene, risalente al 1968, anno d’uscita del suo primo film, Nostra Signora Dei Turchi, permette di installarsi, al di là di tutte le considerazioni successive, all’interno di quella straordinaria avventura, purtroppo per noi prematuramente interrottasi, che fu l’irruzione dell’enfant  terrible nella settima arte. Il funambolo del ‘dis-dire’, l’acrobata della ‘differenza tra atto e azione’, infischiandosene dell’imperante militanza politica dell’epoca, volle cimentarsi in un corpo a corpo (è proprio il caso di dire) con il dispositivo cinematografico, contestandolo senza sosta: è questa peculiarità che ha reso l’opera di Carmelo bene unica, collocandola al di fuori di qualsivoglia orizzonte avanguardistico, giacché  animata non dalla volontà di riformare, trasformandolo, il linguaggio cinematografico, bensì dall’esigenza di trasfigurarlo, rovesciandolo. E in questa operazione a farla da padrone è il corpo: un corpo liturgico che si dissolve in un’irriverente cerimonia di decostruzione dell’Io; un soggetto che, cogliendosi nell’atto di agire (guardandosi allo specchio), dà automaticamente vita a un doppio parodico, la cui principale funzione è quella di ridicolizzare incessantemente il concetto d’identità. «Non si tratta più di inseguire il corpo quotidiano, ma di farlo passare attraverso una cerimonia [….], di imporgli un carnevale, una mascherata che ne fa un corpo grottesco, ma ne estrae anche un corpo grazioso o glorioso, per giungere infine alla scomparsa del corpo visibile»: così Gilles Deleuze ne L’immagine tempo (1985) introduce il cinema di Bene, definendo poco dopo ‘l’autore’ salentino «uno dei massimi costruttori d’immagini-cristallo». Dalla sfilata barocca dei corpi, dei doppi e dalla sovrapposizione delle voci che bisbigliano, urlano, stridono, emerge il silenzio di “un terzo” (il corpo-oggetto invisibile), “il protagonista”, o “il maestro di cerimonia”. Si raggiunge – seguendo ancora l’analisi di Deleuze – un punto di non-volere che definisce “il patetico”, e il risultato è la sparizione del corpo visibile, provocata dall’afasia e aprassia di un orante svuotato della propria soggettività. «Non sono più i personaggi ad avere una voce, sono le voci e i modi vocali del protagonista a diventare i soli veri personaggi della cerimonia» (Deleuze, op. cit.). È come se Bene, trasgredendo la legge kantiana della conoscenza, volesse “mettere le mani sul noumeno” (la cosa in sé), rischiando, come il filosofo afferma nella Critica della ragion pura, di divenire un pupazzo inanimato. La tanto osannata iconoclastia beniana dà forma a un surplus d’immagine che, rovesciandosi, si riduce fino a lasciare intravedere l’invisibile. Ma è l’immagine di un altro mondo, e non ‘altro dall’immagine’. Sebbene C. B. abbia in seguito continuamente vilipeso il cinema, definendolo “la pattumiera di tutte le arti”, si può pensare, invece, che la sua non sia stata una disfatta, una resa incondizionata all’irrimediabile visibilità dei fotogrammi o all’invalicabilità dei limiti del mezzo tecnico, ma una prodigiosa prova in cui, miracolosamente, il proliferare dell’immagine costituisce la procedura attraverso cui lasciare aperto un varco per la manifestazione dell’essere, per tutto ciò che, normalmente, non può essere contenuto all’interno della restrizione della forma. ‘L’abbandono’, tanto spesso predicato dal maestro, è una pratica che non autorizza a relegare il suo cinema in una posizione “mistica”, in cui il linguaggio proclamerebbe il proprio scacco rispetto a ciò che lo eccede, ma costituisce una procedura di verità che, come direbbe il filosofo e drammaturgo Alan Badiou (allievo di Deleuze, ma anche infaticabile critico del suo vitalismo ontologico), permette di collocarsi in una zona d’indiscernibilità, dove non è più possibile distinguere l’essere dal suo apparire. Carmelo Bene s’intrattiene tenacemente presso le falde dell’ordine simbolico, lasciando pulsare l’invisibile, o ciò che si situa al di là del visibile. Il fatto è che C. B., completamento avulso dal quotidiano, dal mondano, dal sociale e dalla politica, ha sempre negato che la verità così tenacemente perseguita potesse, un giorno, assumere una forma: «“La verita è una puttana” diceva Nietzsche, io non sono una puttana e la verità non so dirla; so dire soltanto idiozie, io sono [la] traviata». Quest’affermazione, estratta da uno dei tanti cortocircuiti televisivi innescati dal suo contro-linguaggio, dal suo spirito anti-civile, rivela come, quantunque fosse schierato contro il potere e il suo esercizio, Bene non abbia mai preso in considerazione l’ipotesi di dare adito a un movimento che non fosse solo di sottrazione rispetto al comando. Insomma, per quanto di fatto l’abbia frequentato, non ha mai creduto potesse esistere un luogo dove fedeltà e conoscenza s’incontrano, una zona (forse quella di Stalker, 1979) in cui, seppur informe in quanto infinita, la verità possa trovare alloggio, per poi incarnarsi, grazie all’impegno di coloro che l’hanno perseguita, in un futuro anteriore che consenta di affermare, già da subito, che “sarà stata”. Rimettendosi all’ineffabilità “dell’esser detto”, e innescando, attraverso la parodia del doppio e il cerimoniale del corpo grottesco, “la sospensione del tragico”, Bene ci ha reso sicuramente un gran servigio, dimostrando come tutta l’arte (ad eccezione di rari casi) sia borghese, rappresentazione di stato, decorativa e consolatoria, ma, contemporaneamente, si è arroccato su una posizione reazionaria, non concedendo alcunché alla possibilità di un’altra arte. Un’arte che non riproduca i rapporti di produzione esistenti, che non sia lo spettacolo del potere, come denuncia tutta l’opera di Guy Debord (Hurlements en faveur de Sade, 1952, Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps, 1959, Critique de la séparation, 1961, e La Société du spectacle, 1973), ma si ricalibri su nuovi parametri, intraprendendo itinerari inediti.

Nostra Signora Dei Turchi (1968)

«Basta col produrre capolavori, bisogna essere capolavori»: questo motto beniano non può che apparire condivisibile, purché slegato dalla logica individuale (borghese) del genio, e connesso con la molteplicità di una “moltitudine” che, attraverso l’eccedenza della propria operosità, si sottrae all’eccezione del comando capitalistico, facendo proprio ciò che precedentemente era riservato ai pochi. Parafrasando Bene, potremmo affermare:«O siamo tutti capolavori, o non lo è nessuno», ammesso che il termine “capolavoro” abbia ancora significato. Piuttosto sembrerebbe più appropriato immaginare una fase “altermoderna”, contrapposta alla iattura del postmoderno, in cui, spacciata una volta per tutte la funesta litania dell’artista, del genio e quant’altro, ciascuno, a diversi livelli, contribuisca alla realizzazione dell’opera “comune”, o alla comune realizzazione della moltitudine in quanto opera. Se il potere nella prassi democratica si costituisce sulla pratica della delega, si tratta di rimpossessarsi di ciò che ci spetta, grazie a una vera emancipazione che responsabilizzi gli individui, coscienti, oramai, dell’insufficienza e dell’inutilità dei parlamenti borghesi.

Questa (ap)parente parentesi è in realtà necessaria per contestualizzare l’opera di C. B. in una fase storica, l’attuale, in cui lo sviluppo vertiginoso dei mezzi di comunicazione, e quindi di espressione, impone un drastico ripensamento di quella soggettività contro cui la “macchina attoriale” si è furiosamente scagliata. Antonio Negri e Michael Hardt (Impero, Moltitudine, Comune), rielaborano il concetto di soggetto – collegandolo saldamente a quello di “moltitudine”, contenitore aperto, e quindi non a rischio di derive totalitarie – liberandolo finalmente dall’eterno conflitto con il potere.                 Da questa prospettiva appare evidente come tutta la crociata di Bene contro “l’Io” perda vigore e necessità.

Don Giovanni (1970)

Ma, tornando allo specifico cinematografico, non possiamo non celebrare la straordinarietà dell’opus beniano, a partire, come sopra si era accennato, dall’immagine-cristallo. Il concetto di “cristallo”, coniato da Deleuze, partendo dalla dimensione temporale elaborata da Bergson, «consiste nell’unità indivisibile tra un’immagine attuale e la sua immagine virtuale: c’è un presente attuale che cangia e trascorre divenendo passato, quando, non più presente, è sostituito da un nuovo presente; il presente è l’immagine attuale, e il proprio passato contemporaneo è l’immagine virtuale, l’immagine allo specchio. Non è un’immagine organica, e il tempo consiste in questa scissione, è esso stesso che si vede nel cristallo. Nel cristallo si assiste all’eterna fondazione del tempo, alla sua scissione originaria in tempo cronologico e non» (C. B.).

Gli specchi, disseminati in tutto il cinema di Bene, restituiscono sempre un raddoppiamento d’immagine che, oltre ad allestire il gioco del doppio parodico, rimandano, principalmente, alla dimensione cristallizzata del tempo; il corpo ‘depensato’, situato al di qua e al di là della macchina da presa, giacché l’ha trapiantata su di sé (come il Buster Keaton di The cameraman, 1928), è costretto in una gabbia di vetro, torturato e vilipeso, squartato da un’ironia impietosa. Eppure tra gli

interstizi del montaggio “relativo” (giustapposizione di fotogrammi che rimanda al semplice fuori campo dell’inquadratura) affiora l’immagine di un altro mondo, una prospettiva rovesciata, un grado “quasi zero” di percezione, per cui assistiamo al ‘volo di un angelo senza ali’, come se dalla crisalide di un cadavere animato o rianimato si liberasse una farfalla che vaga tra le fioche luci disseminate sul tappeto nero della notte del mondo. Ma bisogna essere cretini per volare, perché «chi vola non si sa» (C. B.); l’Angelus Novus di Paul Klee, l’angelo della Storia benjaminiano, è irresistibilmente risucchiato dalla tempesta del progresso che spira dal paradiso, gli s’impiglia nelle ali e lo spinge inesorabilmente verso il futuro, nonostante mantenga lo sguardo rivolto al passato, giacché vorrebbe «trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto». L’unica maniera per sottrarsi a questo vortice è liberarsi da ciò che intralcia: ecco, Bene è un angelo senza le ali, che ha dovuto tagliarsi le caviglie, imbrigliate alle catene, pur di spiccare il volo.

La sfida estetica, filosofica e politica che questa critica vuole lanciare è che si possa volare senza le ali, e non per questo ricadere a terra. Evitare la drammatica oscillazione tra entusiasmo e depressione: volare, magari a un palmo da terra, ma volare. E, soprattutto, che ognuno di noi possa e debba farlo. Ora, in virtù di tali considerazioni, si tratta di approcciare il fenomeno Bene provando a smarcare la vulgata dell’iconoclastia, concentrandosi sulla specificità dell’aspetto cinematografico, ed evitando, quindi, la tipica interpretazione pluridisciplinare che rischia di sedimentarsi in un gergo funambolico e sterile. Questo compito, quanto mai ambizioso, impone di tralasciare l’elemento critico dell’opera beniana, cioè di non prendere rigidamente alla lettera quanto C. B. ha detto di sé e del proprio lavoro. Guardando Nostra Signora Dei Turchi, oltre a subire la dolce ipnosi veicolata dal flusso orale della voce fuori campo di Bene, ci si imbatte in immagini folgoranti, come quando vediamo il protagonista inoltrarsi in una grotta dove s’intrattiene con l’altare della Vergine, in una sequenza ammantata di un silenzio che, a scapito di quanto potrebbe di primo acchito sembrare, non è interno alla ‘logica’ del sogno, ma costituisce ‘l’avvento’ di un altro mondo. È come se Bene convocasse il vuoto circolante all’interno della situazione, desaturando gli spazi prima abusivamente occupati dalla rappresentazione, fornendo, in tal modo, alloggio a ciò che eccede l’immagine; ma, ed è decisivo sottolinearlo, questo eccesso può essere accolto solo nella misura in cui è già da subito ritradotto in immagini; altrimenti si rischia quel che C.B. denuncia diffusamente, cioè di cedere «davanti al flusso di cose che non hanno corpo, o del corpo l’eccedenza […]». Accantonato il residuo di trascendentalismo, e passando per il piano d’immanenza deleuziano, si approda, infine, alla “rottura immanente” proposta da Badiou, che, giustamente, denuncia la funzionalità del segno (il rimandare a qualcos’altro) ancora operativa all’interno del vitalismo ontologico del suo maestro. Ma il passaggio conclusivo, che taglia definitivamente i legami dialettici, destituendoli nell’immanenza tout court, è quello proposto da Negri con la topologia della striscia di Moebius, per cui si supera la logica elitaria della ‘rarità’ del soggetto badouiano.  In quest’ottica, l’immagine di un altro mondo non è altro dall’immagine, ma costituisce ‘il rovescio’ estetico di quella di ‘questo mondo’, e risulta quindi fruibile da chiunque sia disposto a ‘resistere’ alla costrizione del visibile «sub specie spectaculi» (C. B.).

Un Amleto di meno (1973)

Nel cinema di Bene quest’immagine guadagnata con tanto sforzo si attualizza nel «corpo della donna, come meccanica superiore, sia che danzi tra i suoi vecchi [Capricci, 1969], sia che passi attraverso atteggiamenti stilizzati di un segreto volere, sia che si irrigidisca in postura d’estasi [Nostra Signora Dei Turchi]» (Deleuze, op. cit.). Il femminile nella cinematografia beniana (ma non solo) assume un ruolo determinante, colto però nella sua dimensione di grazia, non ancora “adulterato”. Siamo spettatori di una sfilata di sante e madonne (Nostra Signora Dei Turchi), oppure, come nel caso del Don Giovanni (1971), tratto da Il più bell’amore di Don Giovanni (novella di Le diaboliche di Jules-Amédée Barbery d’Aurevilly), del miracolo della donna ‘mancante’, la bambina, “provvidenza incosciente dell’onnipotenza”, opera d’arte reale e viva. «Bambina è l’età degli angeli che giocano tra loro» (C.B.): questa mancanza, rievocata sotto le sembianze di ciò che non è ancora, costituisce il massimo di pienezza. L’angelo è evidentemente un tratto saliente dell’estetica cinematografica beniana, è la dimensione androgina dell’artista che, scampato l’equivoco dell’eros, accede a una zona situata al di là del desiderio: un universo kafkiano dove l’incoscienza – l’incapacità di osservare o trasgredire la legge (Il processo) – è proprio ciò che configura lo stato di idiozia del santo, come Giuseppe Desa da Copertino, che «se avesse ricevuto in dono una mela, per metà avvelenata e per metà no, l’avrebbe lasciata scivolare tra le mani di burro». Ma non è il canto che l’angelo intona per lodare Dio a incarnare l’opera, piuttosto è l’angelo medesimo («Che se ne fa delle armonie degli angeli, quando ha trovato gli angeli in persona?» [Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer]). Come per il Pasolini di Teorema (1968) e il Tarkovskij di Solaris (1974), per non parlare di una cospicua fetta dell’opera di Wenders, anche nel cinema di Bene ‘l’angelo senza le ali’ costituisce un elemento iconografico decisivo, e alcune immagini possiedono un grado di autonomia tale da far pensare di non esser state prodotte da mani umane, come se provenissero da un altro mondo.

(Fine prima parte)

Luca Biscontini


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