La 621° Edizione del Carnevale di Putignano 2015 è dedicata ai 7 vizi capitali.
SFILATE
sabato 31 gennaio 2015 – ore 19:00 – Prima sfilata del CARNEVALE DI PUTIGNANO 2015
domenica 8 febbraio 2015 – ore 11:00 – Seconda sfilata del CARNEVALE DI PUTIGNANO 2015
domenica 15 febbraio 2015 – ore 11:00 – Terza sfilata del CARNEVALE DI PUTIGNANO 2015
martedi 17 febbraio 2015 – ore 19:00 Quarta sfilata del CARNEVALE DI PUTIGNANO 2015
I Giovedì del Carnevale di Putignano sono:
22 gennaio – Giovedì delle vedove
29 gennaio – Giovedì dei pazzi (o dei giovani)
5 febbraio – Giovedì delle donne sposate
12 febbraio – Giovedì dei cornuti (o degli uomini sposati)“
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620° Edizione del Carnevale di Putignano
Carnevale di Putignano 2014 Omaggio a Giuseppe Verdi «Tornate all’antico e sarà un progresso» I sette carri allegorici sono tutti dedicati alle composizioni di Verdi: “La Travagliata”, “LAida dinastia”, “Ride bene chi ride la risata final”, “Rigoletto”, “Un ballo in maschera”, “Va pensiero” e “Va sull’ali dorate”. Questi i nomi che i maestri cartapestai hanno attribuito alle loro opere.
REPORTAGE
Sfilata carri allegorici di Putignano 2012
Dove nascono i carri di Putignano
Le Notti dei Giganti di Carta
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CARRI ALLEGORICI 2003
SCHEDE TECNICHE E DESCRITTIVE
Così come il film racconta l’adolescenza di un ragazzo negli anni ’30, il carro ripropone lo stesso racconto che si può ripetere di generazione in generazione, con scenari differenti ma con lo stesso significato. Infatti, così come i nostri nonni dicevano ai nostri padri e loro a noi “Aaaaah, quando io ero ragazzo” questa affermazione si può ripetere sia nel futuro che nel passato, infatti tutte le generazioni vivono i ricordi con un senso di nostalgia. Nella realizzazione del carro viene riproposta una scena significativa del film: quella di Ciccio Ingrassia sull’albero che dice “Voglio una donna” per questo gli altri personaggi del carro sono: Gradisca, la tabaccaia e Titta. Questo per richiamare come nel film le emozioni erotiche di Titta, ragazzo giovane rispetto a Gradisca (bella e inarrivabile) e alla tabaccaia (grottesca e prosperosa). L’intera opera sarà realizzata in cartapesta, la pitturazione verrà effettuata con i colori acrilici e comunque tali da mettere in risalto l’aspetto cromatico del carro.
Il prodotto che s’intende proporre in questa occasione azzarda, umilmente, una sintesi di quanto il Maestro, emotivamente e assolutisticamente, trasmette con la sua Opera: la fantasia e la voglia di raccontare che l’hanno indotto a immaginare e rappresentare un mondo (ispirato al racconto di Petronio Arbitro, poeta latino della Roma Imperiale) nel quale l’essere umano rivela tutta la sua grettezza e incapacità di governare con rettitudine la propria esistenza. Ambiguità dei sentimenti, grandi incertezze e forti contraddizioni trascinano la fragile realtà umana in una crisi profonda, alterando momenti di estrema volgarità e violenza ad altri in cui l’individuo riesce a trasfigurare l’amore puro in confuso e straordinario. L’ambientazione (scenografia), volutamente malsana e in rovina, è sinonimo di decadenza umana e comprende anche ricordi di civiltà passata (colonna greca) fonte d’ispirazione. Scalinate, porte, aperture, tratti nascosti, varchi, percorsi incerti e bui, ricchi di mistero, alludono a spazi dove tutto è surreale e indefinito, al di fuori da ogni cognizione umana. Le caverne sottintendono il ritorno dell’uomo allo stato primitivo. Tra i personaggi più significativamente coinvolti nelle tante vicende narrate oniricamente dall’autore, ci sono quelli (Encolpio, Ascilto e Trimalcione) che personificano sinteticamente i tanti difetti dell’essere umano (erotismo sfrenato, violenza pura, sopraffazione, lussuria e quant’altro) e uno (Eumolpo), invece, che raffigura le rare virtù (quelle che hanno ispirato la civiltà greca) di cui la società è carente. I primi, con comportamenti particolarmente legati alla materialità terrena, inibiscono, di fatto, ogni possibilità di redenzione. L’altro, invece, configurando tutte quelle prerogative derivanti dal sapere che contraddistinguono l’essere umano, giacché svanite, resta in bilico. Tutti prendono parte a una “babilonia totale”, dove anche suoni e rumori (parte della coreografia) sono indefinibili, solo a piccoli tratti riconoscibili, per meglio esprimere l’idea della totale confusione che governa l’esistenza umana.
Nel dover omaggiare il grande autore del cinema italiano, il caso ha voluto che ritrovassi un’immagine cara alla mia adolescenza, presente nelle pagine dei libri sul Carnevale di Viareggio, che illustravano l’operato dei miei idoli, Arnaldo Galli e Silvano Avanzini; li ricordo arrampicati su un faccione enorme, in una foto assieme a Fellini che dal basso, negli hangar viareggini, controllava lo stato dei lavori del meraviglioso testone. È l’enorme polena che emerge dalle acque di una Venezia in festa e che compare nelle prime scene de “Il Casanova” di Federico Fellini. È così che, rappresentare Fellini ed il suo Casanova, è l’occasione per me di emulare l’omaggio che il regista fa ai maestri viareggini o, mi piace credere, alla mia professione, veicolo necessario alla concretizzazione di sogni personali o altrui, alla costruzione di mondi visionari, effimeri che attraverso la sovrapposizione di starti di carta occupano lo spazio e prendono forma e volume. Possiate perdonare una licenza interpretativa che dona alla nostra opera una comicità che Fellini non si era certo concesso. Questo, nelle nostre intenzioni, potrebbe rendere più leggera l’interpretazione tra opera e pubblico. Un Casanova intento alle sue pratiche di rubacuori conduce la sua amata in gondola; in mano ha una maschera dal naso lunghissimo e con la sua proverbiale maestria la calza a pennello. Lei cerca di nascondere una chiave tra i seni mentre lui, con l’aiuto di un mazzo di chiavi, cerca di aprire le porte della sua pudicizia. La donna stringe la Mouna, una balena a bocca aperta che rimanda al sesso femminile ma anche al ventre materno, nel quale Casanova, Pinocchio settecentesco senza salvezza, resta per sempre imprigionato, senza aver mai pienamente vissuto. In primo piano c’è l’oggetto inseparabile del Casanova: un uccello meccanico movibile, che ogni volta che egli intrattiene le sue concubine si esibisce in un balletto che sembra voler ridurre il performer Casanova a puro e patetico congegno sessuale. L’uccello calpesta i volumi di cui Casanova è autore così come la fama di amatore sovrasta i suoi sforzi di uomo di cultura e lo condanna ad esibirsi come fenomeno da baraccone. Accanto alla gondola c’è la bambola meccanica che compare nel momento della vecchiaia, quando ormai il suo mito è svanito ed egli prende coscienza delle sorti di una vita che non ha mai pienamente vissuto, vittima dei propri fantasmi e del proprio ego. Cornice all’insieme sono le architetture veneziane dietro le quali si celano occhi indiscreti che spiano le prodezze del fenomeno Casanova e che ne irridono le sorti.
Film del 1980 diretto da Federico Fellini. Il tema trattato dall’opera all’epoca suscitò grandi polemiche da parte dei movimenti femministi, infatti il film propone la tesi dal punto di vista maschile di una donna libera, ma incapace di costruire un rapporto costruttivo con l’uomo, che riceve continui attacchi non dovuti alle proprie colpe ma alla propria appartenenza genetica. Protagonista della vicenda un uomo maturo e incauto impersonato da Mastroianni, il quale durante un tragitto in treno sogna di avere un fugace flirt con una misteriosa signora che decide di seguire, non sapendo che tutto questo lo porterà a vivere un’avventura pericolosa nel pluridimensionale “Pianeta Donna”. Dopo svariati incontri che lo portano a conoscere le mille sfaccettature dell’universo femminile, il protagonista viene condotto in un’aula di tribunale, dove, inconscio delle proprie colpe, viene condannato dalle femministe che lo vogliono linciare, ma lui riesce a fuggire su una grande mongolfiera dall’aspetto di donna che rappresenta “la donna ideale”, ma tutto questo si rivela un’utopia perché poco dopo la mongolfiera viene colpita precipitando. È proprio questa scena finale la scelta della realizzazione del carro.
Dal film di Federico Fellini – 1959, “La Dolce Vita”, il gruppo Franco Giotta produrrà con libera interpretazione la realizzazione del carro allegorico, mantenendone la matrice dei personaggi principali e l’essenza del suo contenuto, pur non tralasciando riferimenti ironici, rapportati all’epoca e ai giorni nostri. Le varie letture degli episodi e l’intera storia che il film ci offre, sono riportati nei fotogrammi dell’intera pellicola. La fontana di Trevi è attrazione tramandata anche oggi come fonte di desideri per turisti e non, (con gettito di monete in cambio di un desiderio esaudito), ma come tutte le cose anche questa ha il senso opposto: c’è chi è pronto ad appropriarsi delle monete e chi anche dei sogni degli altri. Questo film ha sancito l’esistenza del ruolo della figura del paparazzo: testimonianza di quanta fame del pettegolezzo altrui il genere umano esiga. Il film realizzato in bianco e nero ci suggerisce soluzioni di colorazione appropriate.
Tratto dal film “La Strada” il carro allegorico che vogliamo rappresentare è, appunto, un viaggio. Un viaggio che termina con uno dei personaggi più suggestivi e più belli del mondo di Federico Fellini: la Gelsomina stralunata, interpretata magistralmente da Giulietta Masina, la donna che predomina la scena, il film, la sua vita. Una donna che prima di essere donna è un’ innocente bambina strappata dalla famiglia prima del tempo e costretta a fare la pagliaccia per vivere e che, per non impazzire e attutire la sofferenza e il disagio, si rifugia in un universo tutto suo, fatto di strisce, di cammini, di fermate, di incontri e di pianti. Gelsomina con la sua grazie e la sua leggerezza, sempre sospesa tra commedia e tragedia, quasi nasconde l’ingombrante figura di Zampano e, insieme, si ritrovano ad orbitare intorno a un blocco di strada, giocando con i rifiuti della società del consenso, compiendo il gesto di dissenso più radicale per due emigranti: iniziare a spostarsi, a muoversi lateralmente. Un carro che intende intrecciare una polifonia di corpi, voci e storie, alternando, come nel film, momenti di ilarità a quelli di completo sconforto, osando riferirsi alla realtà come se si trattasse di un’antica ragione che colpisce tutte le classi sociali, senza per questo indulgere in facilissime invettive. Il mondo circense diventa, allora, l’unico universo dove è possibile realizzare i sogni, dove la poesia si materializza in poche battute, con un gesto eclatante che spezza le catene. Gli antagonisti, Zampano e il Matto, sembrano anche loro provenire da quell’universo incantato anche se incarnano due modi diversi di affrontare la vita: il reale pragmatismo di Zampano mal si associa con la poesia funambolica del Matto che è destinato a soccombere. Come in una catacomba dell’essere, si celebra il magistero dell’arte di strada. I corpi circensi si separano dal mondo e reinventano un patto esistenziale fatto di sorrisi, cappelli, pasti caldi e guadagni immediati. Proprio come Gelsomina, che nel ventre della sua trombetta celebra un laboratorio magico che a sua volta diventa una lanterna magica dove gli oggetti dismessi e inutilizzati diventano gli strumenti per dare vita a un mondo circolare. Per continuare a vivere si torna a vivere in clandestinità. La morte va affrontata, proprio come Gelsomina che si fa ballerina per liberarsi dalla strada fatta sotto lo sguardo di Zampano, che non capisce, o meglio, non vede e lascia che Gelsomina, balli, suoni e nasca ancora. Una vita che non è più una vita, diventa il cono d’ombra nel quale piombano le coscienze dei protagonisti. Quella vita che non è più vita, diventa il solco di una morte in vita di un pubblico che contempla il proprio avvenire con attonito disinteresse e stupore disarmante. Come in un assedio, dove tutto può e deve essere utilizzato per respingere l’attacco della realtà, si parte dal resto dei circensi, provocatoriamente messi in basso, e si guarda in su fino al personaggio principale e questo è uno scarto dal sapore aurorale, di un’audacia folle. Zampano, però, non si fa illusioni. Non si sfugge al mondo. Quando dall’oltre-mondo si torna alla luce del sole di un’alba attonita, si torna sempre con un po’ di morte addosso, quella morte che parla del corpo, di ciò che un uomo qualunque o un saltimbanco è capace di fare.La geometria della strada è reinventata costantemente come in un palco vorticoso, dove le regole del gioco diventano epifania di possibilità. Sulla strada si erra, si viaggia, si torna indietro, si sbaglia, si cammina, si soffre, si prosegue. La strada è il non luogo, la si può attraversare, ma non possedere; compiangere, ma non dismettere e la solitudine di intenti è solo una delle paure che incalza. Sulla strada avviene tutto e si affronta la vita: il circo decadente che cammina a pari passo con i sorrisi e chiude il cerchio con la morte e, nonostante ciò, ci si costringe a proseguire. All’orizzonte ci sono tante possibilità, ma il circo riporta ad un luogo limitato dell’esistenza, dove un motivetto ti riporta al punto iniziale. C’è sempre una soluzione se c’è una strada. Una scelta, una via. Allora il matto chi è? Dov’è? Dove porta la strada se diventa chiusa su se stessa? Porta a ritrovarsi.
La strada più ardua: il rifiuto radicale di lasciarsi sedurre dalla semplificazione. Nel percorrere la strada della complessità, fatta di strisce, colori e traguardi, lo sguardo si apre alle possibilità del mondo e sono la luce e la verità di questa solitudine invincibile, intesa come bellezza, pazzia e giustezza, a vincere.
“Lo sceicco bianco” è la pellicola felliniana da cui il tema del carro allegorico di quest’anno trae ispirazione, promettendo spunti di riflessione, nonché divertimento, nella tradizione del Carnevale. Il film, praticamente il primo del grande maestro, narra la vicenda di due sposini piccolo borghesi in luna di miele a Roma. Lo sposo conta soprattutto di fare una buona impressione sullo zio residente in città, grazie alla cui influenza spera di fare carriera; la sposa, invece, all’insaputa del marito, spera che a Roma potrà finalmente realizzare il suo sogno: fare conoscenza con l’eroe del suo fotoromanzo preferito: lo “Sceicco bianco”. Wanda, la sposa, riuscirà ben presto a conoscere, sul set del fotoromanzo, in riva al mare, Fernando Rivoli (il grande Alberto Sordi), interprete dello “Sceicco”, che arriva a proporle una piccola parte nel film: in realtà l’uomo è abituato a trattare con le sue numerose ammiratrici e sfrutta occasioni simili per avere brevi avventure con ciascuna di loro. In breve Fernando propone a Wanda una gita in barca e si allontana con lei dalla riva, ma la donna, pur infatuatissima, è troppo ligia ai suoi principi per concedersi. Il mito dello “Sceicco” crolla bruscamente quando Wanda scopre che Fernando è sposato, e, al ritorno sul luogo delle riprese, assiste a una scenata di gelosia fra lui e la moglie, giunta nel frattempo. Il marito di Wanda, Ivan, all’oscuro di tutto, si preoccupa soprattutto di evitare uno scandalo con la famiglia dello zio: i parenti si mostrano affettuosi, ma decisamente invadenti e inclini al pettegolezzo: dov’è Wanda? Wanda è disperata, non sa se può ancora sperare nel perdono di Ivan, ma questo probabilmente avverrà dal momento che non è arrivata al punto di concedersi a un altro uomo e soprattutto dal momento che gli zii non sanno e non sospettano nulla. Il tradimento fisico non c’è stato, le apparenze sono salve e, secondo la morale piccolo-borghese vigente in provincia, questo è sufficiente perché un matrimonio non sia compromesso.
E oggi? Il tema delle apparenze che ingannano è più che attuale, nonché facilmente collegabile alle nuove possibilità di relazione fra individui offerte dai social network. Su Facebook, e non solo, è oggi possibile scorrere foto di chiunque, proprio come Wanda faceva con le pagine del suo fotoromanzo, ma è anche possibile recuperare byte e byte di altre informazioni che non è detto forniscano notizie di un profilo veritiero e calzante rispetto all’identità reale del soggetto in questione. Il risultato è quasi una disarmante facilità nel tessere infinite relazioni che si risolvono, nel passaggio dal cibernetico al reale, in altrettante numerose delusioni. Delusioni come quella di Wanda, ma anche ben più pesanti, in una società delle apparenze che cela sempre maggiori pericoli e perversioni, che evidentemente Federico Fellini non poteva prevedere nello specifico, ma che ha certamente anticipato.