Cartoline da una fossa chiamata Srebrenica

Creato il 27 maggio 2011 da Ambrogio Ponzi @lucecolore
Catturato in Serbia Ratko Mladic, boia di Srebrenica
l’articolo che qui vi proponiamo è stato scritto nel luglio 2010 nel quindicesimo anniversario del massacro di SrebrenicaCARTOLINE DA UNA FOSSA CHIAMATA SREBRENICA-  Emir Suljagic era un ragazzo l’11 luglio 1995, quando le milizie entrarono nella città bosniaca Sotto gli occhi dei caschi blu, nell’indifferenza del mondo, in sette giorni i serbi di Mladic uccisero oltre ottomila persone. Lui si salvò. E oggi Emir racconta in un libro lo stupore e l’orrore -di GUIDO RAMPOLDI, da “la Repubblica” del 11/7/2010   Quindici anni dopo, chi ogni tanto ritorna ha l’impressione che nulla sia cambiato. C’è ancora una piazza Fratellanza e Unità, un boulevard  Maresciallo Tito, e ovunque l’asfalto resta segnato dalle granate. Tutto così immobile che un sopravvissuto si scopre a camminare in punta di piedi nella piazza principale, tanto forte, quasi fisica, è “la sensazione di calpestare i cadaveri dei miei cari”.   In quel paesaggio intatto permane immutata anche la sensazione che l’Europa rifiuti di fare i conti con quel che accadde a Srebrenica nei tre annid’assedio stretto dalle milizie serbe, e in particolare nei sette giorni successivi alla resa. Era l’11 luglio 1995.  Dal 12 al 19 le milizie del generale Mladic ammazzarono un migliaio di prigionieri al giorno, per un totale di oltre ottomila musulmani, inclusi alcuni minorenni e molti anziani.   Non si può sterminare in quella proporzione senza farsi scoprire (anche dai satelliti), tanto più se la strage avviene sotto il naso delle Nazioni Unite. Eppure in quella settimana nessuno tra chi doveva sapere o quantomeno intuire (Onu, governi occidentali) tentò difermare la strage.Non si può capire perché i sopravvissuti continuino a paragonare il massacro di Srebrenica all’Olocausto senza tenere presente che la loro vistosa esagerazione aveva ed ha lo scopo di richiamare le coscienze dal loro torpore. Nel concreto il confronto è semplicemente improponibile, data l’incommensurabile diversità, qualitativa e quantitativa, che separa i due eventi.   Eppure le similitudini proposte da un sopravvissuto, Emir Suljagic, nel suo diario dell’assedio di recentissima pubblicazione (Cartolina dalla fossa, edizioni Biet), meritano rispetto e attenzione. Suljagic aveva diciassette anni quando le milizie serbe presero Srebrenica. Si salvò perché era interprete delle Nazioni Unite, ruolo nel quale fu testimone del “freddo, quasi burocratico disinteresse” del personale civile e militare della missione Onu, “un tradimento compiuto da persone che, secondo ogni standard, erano istruite e intelligenti: da uomini che in quei giorni non ebbero coraggio o non vollero essere uomini”.   In questa galleria di vili spicca il comandante dei caschi blu olandesi, il colonnello De Haan. All’arrivo dei serbi si cala le braghe, al pari dei suoi uomini. Non vuole guai. Cancella di suo pugno il nome di un diciannovenne che gli interpreti hanno inserito surrettiziamente nella lista del personale Onu autorizzato dai conquistatori a lasciare la città. Lasciato a Srebrenica, il ragazzo verrà ucciso pochi giorni dopo.Simmetrico al disinteresse internazionale e Onu è l’incapacità degli assediati di guarire dalle proprie illusioni. Quando cominciarono le prime deportazioni naziste, cioè ben prima della Seconda guerra mondiale, molti prigionieri dei campi coltivarono la stessa ragionevole speranza dei musulmani assediati a Srebrenica.  I quali, scrive Azra Nuehefendic nell’introduzione a Cartolina dalla fossa, “ogni sera si addormentavano con l’idea che l’indomani qualcuno li avrebbe soccorsi, rimediando il terribile torto per il quale stavano soffrendo, che l’ingiustizia si sarebbe risolta e che l’incomprensibile indifferenza del mondo per le loro sofferenze non poteva essere reale”. Il generale Mladic non era certo Hitler, ma “l’incomprensibile indifferenza del mondo” era di nuovo all’opera. Stavolta dietro un travestimento pacifista e umanitario.Nel 1993 le Nazioni Unite avevano dichiarato Srebrenica “safe haven“, zona protetta. Quando però i serbi lanciarono l’assalto finale, il verticedella missione Onu, giapponese nella parte civile e francese nella parte militare, reagì con una lentezza probabilmente calcolata. Per quanto fossenella sua potestà chiedere all’aviazione americana di fermare i serbi bombardandoli, di fatto lasciò che Srebrenica cadesse. Perché?  Secondo una tesi, la città e i suoi abitanti erano la moneta con la quale il comando Onu aveva comprato la liberazione dei caschi blu sequestrati dai serbi due mesi prima. Inoltre è probabile che i governi europei vedessero con favore la caduta dell’enclave, l’unica “isola” musulmana in quella parte di Bosnia, nel calcolo che poi sarebbe stato più semplice arrivare ad una spartizione territoriale, come in effetti avvenne.Il risultato “politico” fu che l’Onu rimediò la figura più miserabile in cui fosse mai incappata. Sei mesi dopo, la sua disfatta diede diritto alla Nato di varare sul campo, con una guerra-lampo in Bosnia, l’alterna stagione dell’interventismo umanitario.Però l’”incomprensibile indifferenza del mondo” chiama in causa non soltanto i governi, ma anche le opinioni pubbliche europee. Durante l’intera guerra di Bosnia, per esempio, in Italia non vi fu una sola manifestazione. Eppure chi ne aveva desiderio poteva capire facilmente quel che avveniva dall’altra parte dell’Adriatico.   Non mancavano voci autorevoli cui dare ascolto. Per esempio il Nobel Eli Wiesel, che già nel 1993, durante l’inaugurazione del Museo dell’Olocausto a New York, si era rivolto così a Clinton: “Signor presidente, c’è una cosa sulla quale non posso tacere. Sono stato nell’ex Jugoslavia e non riesco a dormire per quello che ho visto. Le chiedo di fare qualcosa per fermare le uccisioni. Qualcosa deve essere fatto. Stanno ammazzando anche i bambini”.   Quanti furono i Giusti? Non molti. Merita di fare almeno alcuni nomi. Tadeusz Mazowiecki, ex primo ministro polacco, incaricato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Ashdown e i lib-dem britanniciI Grunen tedeschiAlcuni piccoli partiti scandinaviAlcuni giornalisti occidentali, tra i quali Adriano Sofri. Gli italiani (l’informazione, la politica): balbettanti, confusi, inconsistenti. A destra come a sinistra.Però alcuni anni dopo il coro dei silenti si ritrovò a Sarajevo, dove una consesso di primi ministri occidentali pronunciò di nuovo il fatidico “Mai più”. Se c’è una “lezione di Srebrenica”, suona così: mai fidarsi di quei “Mai più”.   Mai sottovalutare la tendenza universale a fingere di non capire, quando capire comporta l’assunzione di rischi. Mai illudersi che l’umanità capitalizzi saggezza. E mai dare per scontato il nostro fragile stato di diritto: basta poco per ribaltarlo. Nei ricordi di chi ha attraversato le guerre “etniche” dell’ex Jugoslavia permane lo stupore per la facilità e la rapidità del rovesciamento imposto dal conflitto.   All’improvviso i criminali divennero l’autorità, la malvagità fu eletta a coraggio, i poliziotti si dimostrarono i peggiori tra i banditi. “Fummo ricacciati in una società primordiale, priva di leggi”, scrive Suljagic. Le salde certezze che appartengono a ciascuno furono travolte per sempre. Anche da qui l’incapacità nei sopravvissuti di tornare alla “normalità”, e cioè la condanna ad una vita emozionale frenata, mutilata (nelle parole di Suljagic, “Tutti i sentimenti sono incompleti… per qualche motivo solo là, tra i ricordi, tra le ombre, mi sento meglio”).Tra le storie terribili degli oltre ottomila sventurati uccisi a Srebrenica, molti dei quali ancora senza una tomba, spicca il paradosso di Nezir Omerovic. Da giovane aveva recitato la parte di un partigiano sgozzato dai fascisti serbi, i cetnici, nel kolossal americano La Battaglia delle Neretva. Fatto prigioniero dai serbi nei giorni successivi alla caduta di Srebrenica, morì proprio in quel modo: sgozzato dai nuovi cetnici. Il film in cui aveva recitato la propria morte apparteneva al canone rassicurante che oggi potremmo definire il genere “Mai più”. (Guido Rampoldi)

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