Cartoline dal paradiso/5. La marcia in più degli artisti americani

Da Silviapare

Djerassi dall'alto


Quando io e Mr K ci conoscevamo da pochi giorni andammo a visitare un laboratorio di soffiatura del vetro. Lui e la nostra amica che ci accompagnava, una scultrice, si fecero spiegare come funzionava, e in quattro e quattr'otto cominciarono a produrre complicate sculture di vetro, animaletti e maschere e forme astratte. Io uscii dal laboratorio con un paio di sgraziati caramelloni avvitati su se stessi e un potente senso di inferiorità.

Altro che puma


Qui a Djerassi succede la stessa cosa. Gli artisti lavorano il legno, saldano il ferro, usano materie plastiche. Mr K discute con un'artista di quanto gli piacesse il laboratorio di metallurgia della sua scuola superiore, mentre lei era entusiasta di quello di carpenteria. 
D'altronde, anche Alfred Lambert aveva un laboratorio di metallurgia nel seminterrato. Da queste parti non è una cosa tanto strana.

Dalla finestra del mio studio


E poi c'era quella scrittrice che tempo fa mi disse: "E così ho deciso di diventare un'artista." Frase impensabile per un'europea (o forse solo per un'italiana), cresciuta con l'idea che l'artista è una persona toccata dal sacro fuoco dell'ispirazione, e che artisti si può solo nascere, non certo diventare.  
E così io un po' li invidio, questi artisti americani che sono diventati artisti anche perché nelle loro scuole superiori (mica in tutte, eh) si studiavano metallurgia, carpenteria e altre robe pratiche, questa gente che sa cosa fare con le proprie mani, che si è abituata presto a toccare la materia, a modificarla, a imparare tecniche e non solo teorie.

Sempre dalla finestra del mio studio. Uno più coraggioso