"Casa Howard" di E.M. Forster e "Della Bellezza" di Zadie Smith

Creato il 11 ottobre 2010 da Memole
La mia recensione di “Casa Howard” (Howards End) di E.M. Forster si trova a questo link. Visto che in coda all’articolo avevo menzionato il lavoro di semi-adattamento fatto da Zadie Smith con il suo libro “Della Bellezza” (“On Beauty”) in questa sede mi piacerebbe parlarvi di quel romanzo.
Il mondo degli adattamenti e degli “up-date letterari” è sterminato. C’è chi ha ricreato un capolavoro del cinema come “Psycho” ricalcando ogni minima inquadratura, come ha fatto Gus Van Sant nel 1998, e c’è chi ha creato dei cosiddetti spin-off, delle divagazione sul tema per così dire. Un esempio di quest’ultimo tipo di adattamenti in letteratura che mi salta alla mente è “Il Grande Mare dei Sargassi” (“Wide Sargasso Sea”, 1966) della scrittrice dominicana Jean Rhys che, partendo dal personaggio di Bertha Mason, la moglie pazza di Mr Rochester in “Jane Eyre”, ha scritto un romanzo che ne spiega la storia e le ragioni della pazzia. C’è chi ovviamente ha riscritto un classico adattandolo ai tempi moderni (numerosissimi gli adattamenti, cinematografici e letterari, di Shakespeare) e chi ha creato un ibrido.
Creare un ibrido è proprio quello che ha fatto Zadie Smith con “Della Bellezza” (“On Beauty”, 2005), che è un adattamento-non adattamento di “Casa Howard” (“Howards End”, 1910) di E.M. Forster. L’intento è evidente fin dalla prima frase, che ricalca quel famosissimo “One may as well begin with Helen’s letters to her sister” (solo che nel caso del romanzo di Zadie Smith si tratta di e-mail e non di lettere). Il romanzo parte dalla struttura di fondo di “Casa Howard” – due famiglie estremamente diverse tra loro, dagli ideali quasi opposti, eppure attratte l’una dall’altra, che dibattono su questioni legate alla bellezza, all’arte, alle classi sociali e alla cultura – per poi divagare, modificare gli avvenimenti, inserire temi non presenti nel romanzo di partenza e mescolarne i personaggi. Quel che ne risulta è un romanzo di una complessità non indifferente in termini di psicologia dei personaggi, che è stato recepito con pareri discordanti, anche perché gioca molto sugli stereotipi culturali e razziali. L’autrice stessa ammette di non aver nemmeno riletto il libro prima di mettersi alla stesura di questo suo terzo romanzo e che i due libri si incontrano solo in due o tre punti (cruciali però aggiungerei io, per esempio la scena in cui Leonard-Carl dimentica un ombrello, che diventa un walkman nella versione di Zadie). “Howards End”, per Zadie Smith, è stato semplicemente “a little hook to hang a novel on”, un piccolo gancio a cui appendere il romanzo.
I protagonisti di “On Beauty” sono due famiglie, i Kipps e i Bentley, che vivono in America, in un quartiere residenziale di una cittadina universitaria della East Coast. L’etnicità delle due famiglie è molto importante per lo svolgersi della vicenda: Howard Bentley è inglese e bianco, mentre la moglie è nera e viene dalla Florida. I figli di conseguenza sono “mixed-race” e alla ricerca della loro identità. Ma attenzione, ci avverte l’autrice, non sono alla ricerca di un’identità perché di razza mista (ma quanto suona male in italiano?), quanto perché appartengono alla modernità che ha creato quest’idea di dover cercare la propria identità, cosa che fa impazzire tutti, mixed-race or not. La famiglia Kipps, di origine caraibica, è quella conservatrice, con la figlia mangiauomini che dovrebbe equivalere allo sciupafemmine che all’inizio di “Howards End” seduce Helen e poi parte per l’Africa defilandosi dal romanzo. Eppure Monty Kipps, il capofamiglia, non equivale a Henry Wilcox, perché alcune sue caratteristiche si riscontrano in Howard, per esempio una certa ottusità nei confronti dell’arte, quella di Rembrandt in particolare. Sarebbe interessantissimo studiare – e sono certa che è già stato fatto in qualche saggio o tesi di laurea - quello che fa Zadie con “Howards End”: dove i due romanzi si incontrano e dove differiscono. La casa, Howards End appunto, diventa per esempio un quadro di un artista haitiano, forse simbolo della ricerca di una certa identità (africana, nera, della migrazione, di quel cavolo che vi pare). Forse quello che Zadie ci vuole trasmettere attraverso questo romanzo – godibilissimo anche se non conoscete la versione di Forster – è che nel ventesimo secolo (e ancora di più nel ventunesimo) le identità, così come la divisione in classi sociali, sono complesse, sovrapponibili, quasi insondabili, ovviamente malleabili e difficilmente gestibili se ci ostiniamo a piazzarle in compartimenti stagni. Non è un caso che Levi, il più giovane tra i figli di Howard, vada in cerca di un’identità “street” tra gli immigrati haitiani, modificandola però, intellettualizzandola e adattandola a sé stesso.
Il romanzo di Zadie Smith è intitolato come un saggio ma in realtà è esattamente l’opposto, cioè un romanzo molto aperto, che non si sa dove porti, ma che parla espressamente di bellezza, in una miriade di forme diverse una dall’altra. C’è la bellezza dei quadri di Rembrandt che Howard non riesce a riconoscere, la bellezza fisica prorompente di Carl e Vee, quella intellettuale di Zora, quella materna di Kiki e poi naturalmente quella della bellezza della scrittura di questa giovane scrittrice inglese che ci regala sempre emozioni e cose su cui riflettere.
A proposito… Zadie Smith a settembre sarà al Festivaletteratura di Mantova, non perdetevela!
Scrissi di lei anche qui, in occasione di un'intervista fatta (non da me!) durante il periodo che ha passato a Roma, nel quartiere Monti, dove ha vissuto con il marito. Ne uscirono riflessioni interessanti sul dibattito letterario (inesistente secondo le Zadie) in Italia.

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