C’è che delle volte ti abitui così tanto alle parole che le butti, le dici, toh, eccole, parole indiscrete in fila che sbudellate forse non significano niente. Le butti come la spazzatura della sera, come i vestiti sporchi nel cesto, a terra, come la penna con la quale stai scrivendo, fuori, come l’aria pesante dei tuoi polmoni affacciati sul balcone delle aspettative. Eppure sono parole, sono soggetto verbo e complemento, sono complimenti, è un piacere, sono una lingua, ma anche due, sono il mestiere che apprendi, o forse il mezzo con cui giungere a un fine, sono quella sottile differenza che chiamano “comunicazione”. Fino a quando.
Fino a quando cominci a conoscerne il processo, quel grosso ictus di verbi e pronomi, di cui ti accorgi di esserne affetta, schiava e vittima, assuefatta dai “fino a quando” dai “forse”, dai “perché” e dai “dai”, fino a quando anche i polmoni cesseranno di tirare ossigeno, un giorno, e la forza di gravità la smetterà di impegnarti alla vita come alla terra, la stessa terra che hai calpestato con le scarpe più belle, in un tempo remoto e astinente ormai dalla freschezza e dalla dolcezza della vita, la terra con la quale hai costruito castelli, scoprendo solo più tardi che sono ancora intatti.