Casus belli: guerra antica, mitologia e saggezza popolare

Creato il 04 aprile 2015 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
Da quando abbiamo iniziato a studiare la storia ci siamo imbattuti in conflitti di cui abbiamo dovuto ricordare contendenti, date, esiti e, possibilmente, gli eventi che ne hanno provocato lo scoppio. Per gli antichi, però, la guerra era all'ordine del giorno, sicché motivare le continue carneficine risultava molto difficile, sopratutto quando, guardando indietro, il tempo passato era tanto da non poter più distinguere una lotta dalla precedente, figuriamoci ricordarne le cause.
 

Pablo Picasso, Il ratto delle Sabine (1963)

Per questo motivo Greci e Romani ricorrevano, per ordinare le loro memorie di conquistatori e di soldati a vita, alla mitologia, nobilitando i conflitti di cui erano protagonisti attraverso colorite storie di amore, offesa e vendetta.
Il casus belli più celebre della storia dell'umanità è quello del rapimento di Elena ad opera di Paride: il principe figlio di Priamo, dopo aver assegnato alla dea Afrodite il primato della bellezza conteso con Era e Atena, ottiene come premio l'amore della donna più bella della Grecia intera. Peccato che costei sia la sposa del re di Sparta, Menelao, il quale ha un fratello che non aspetta altro che un pretesto per conquistare Troia. Come prosegue la storia è materia ben conosciuta. Meno noto è che Erodoto, lo storico di V secolo a.C. autore delle Storie, che riconduce i motivi profondi delle Guerre persiane (490-478 a.C.) ad una serie di rapimenti iniziati con il principio della navigazione e culminati con la famosa tresca iliadica. In apertura alla sua opera, infatti Erodoto menziona una serie di sottrazioni indebite di donne da parte di Asiatici e Greci: dapprima i Fenici rapiscono Io, figlia del re di Argo Inaco (ma questi sostengono, ovviamente, che la fanciulla ha seguito spontaneamente il comandante della nave fenicia che l'aveva messa incinta), poi i Greci rispondono col rapimento di Europa, che in realtà una tradizione di maggior successo vuole sottratta da Zeus, ma, non contenti della parità, grazie a quel genio opportunista di Giasone, le sorti degli equilibri mondiali vanno di nuovo a rotoli, perché il principe di Iolco decide di portare con sé Medea (ben raggirata da Eros e Afrodite), alla quale ha fatto rubare il vello d'oro e tradire l'intera famiglia, con tanto di assassinio del fratello. Poco importa che Giasone ripudi Medea in favore della principessa di Corinto: qualche generazione dopo arriva Paride con quella benedetta mela d'oro che a stento tiene testa al pomo della Genesi e a quello della strega di Biancaneve.
Non va molto meglio ai sopravvissuti della guerra troiana, in particolare ad Enea, che, senza far tesoro del pessimo esempio del suo parente e totalmente disinteressato al fatto che la patrona di Cartagine sia proprio quella Giunone/Era offesa da Paride nel famoso giudizio, si dà, anche qui con la compiacenza di Venere e Cupido, alla seduzione con conseguente abbandono della regina Didone, che per amor suo infrange il voto di fedeltà al marito morto Sicheo e, dopo la fuga dell'eroe troiano, si uccide invocando giustizia nel nome di un vendicatore di cui Virgilio manca solo di darci la carta di identità: Annibale, il flagello del popolo romano, colui che, nella seconda Guerra punica infliggerà tremende sconfitte ai discendenti di Enea. La tradizione della maledizione di Didone come causa dei conflitti punici è tramandata da Virgilio, ma nota già a partire dal Bellum Poenicum di Gneo Nevio (fine III sec. a.C.). 

Luigi Bonazza, Europa


Il vizio di sedurre donne straniere, però, non passa tanto in fretta ai Romani, se, dopo diversi secoli dallo sbarco di Enea nel Lazio, i discendenti di suo figlio Iulo, comandati da Romolo, si lanciano alla conquista delle donne Sabine. Per garantire un futuro glorioso al popolo romano occorrono donne in grado di generare figli forti e vigorosi e Romolo ne trova di proprio interesse presso i popoli vicini, fra cui i Sabini: i Romani organizzano uno spettacolo in occasione dei Consualia, nel corso del quale rapiscono le donne, dalle quali avranno una prospera discendenza nonostante la lunga guerra fra loro e i padri offesi, che avrà fine solo per l'intervento delle donne stesse, decise a fermare lo spargimento di sangue fra le famiglie d'origine e quelle create con gli sposi romani.Chi ha coniato il detto «Fate l'amore, non fate la guerra» non aveva ben presenti gli eccessi sanguinari di cotante relazioni: aveva le idee ben più chiare chi raccomandava «Moglie e buoi dei paesi tuoi», forse senza neanche pensare alla bella Europa e al suo originale consorte.
Romolo, comunque - è risaputo - non era un gran diplomatico. Ben prima del ratto delle Sabine, al momento di scegliere chi fra i due gemelli avrebbe regnato sui Romani, si era deciso di ricorrere agli auspici (la divinazione basata sul volo degli uccelli), ma era sorto un problema; come ci racconta Tito Livio, Remo era stato il primo ad avvistare sei avvoltoi, ma subito dopo Romolo ne aveva scorti dodici: avrebbe dovuto essere re chi aveva avuto per primo il responso o chi lo aveva ricevuto in forma più consistente? La questione si era risolta nella lotta e, vuoi per il tumulto e la calca, vuoi perché Romolo era di spada facile, la cosa era finita nel sangue. Questa nascita fratricida di Roma è stata spiegata fin dall'inizio delle guerre civili fra mariani e sillani, come la vera causa di tutte le lotte intestine che hanno lacerato la Repubblica prima e l'impero poi, e che non di rado, oltre ad opporre i cittadini, hanno lacerato intere famiglie, al punto che, in relazione allo scontro fra Cesare e Pompeo, il poeta Lucano, nel I sec. d.C. nel proemio della Pharsalia (poema noto anche come Bellum civile) avrebbe parlato di bella plus quam civilia e di cognata acies («guerre più che civili» e «strage familiare»).Dalle mie parti esiste un proverbio che descrive bene la situazione: «Amor de fradèi, amor de cortèi» (Amore di fratelli, amore di coltelli). Caino e Abele, Eteocle e Polinice insegnano.  

Angelica Kauffman, Venere induce Elena ad innamorarsi di Paride (1790)

 Un ultimo spunto di excursus mitologico (un po'sui generis, perché attinge alla Bibbia) è dato dal canto VI del Paradiso (vv. 92-93), dove la campagna di Tito contro i Giudei, terminata con la conquista di Gerusalemme e la distruzione del tempio di Salomone nel 70 (l'evento che dà origine alla Diaspora) viene vista come l'atto di vendetta condotto dai Romani, pagani ma parte di un disegno divino che fa dell'Impero il suo strumento più forte di azione fra i popoli, per punire l'uccisione di Cristo (a sua volta riscossa contro il Peccato originale). «Chi la fa l'aspetti» sembra dire il Ghibellin fuggiasco... ma non è, in fondo, questo il pretesto assurdo costantemente inventato nella storia - e nondimeno nel presente per giustificare scontri che di comprensibile non hanno nulla? Come si vede, anche questa è un'antica eredità.
C.M.

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