Sono la possibilità ambulante di un paragone che salva; che toglie dalle mani la palma della più brutta, della più grassa, della più sola.
Sul pullman arrivo tra i primi per non comparire di fronte alla platea, per non percorrere il corridoio tra i sedili, come una ridicola passerella; mi siedo in seconda fila tra i primini, rivolta al finestrino. Non ho compiti da copiare, non ho appunti da ripassare, non ho amiche con cui condividere qualcosa. Mi hanno confinata qui, murata in me stessa. Avranno pensato che grassa come sono potevo ricavare da me un'amica o due con cui chiacchierare, trascorrere il tempo; che fossimo più persone in una.
La classe ha la forma di un mattone.
Siedo in un angolo, quello opposto all'entrata.
Sparisco: devi pensarmi per vedermi, devi volermi parlare: girare la testa.
Inaspettatamente pensò ai libri; ai libri come pastiglie rettangolari e colorate, con una confusa idea di quello che potessero contenere: poesie, romanzi, disegni, saggi… senza riuscire a indicare un solo autore, o un titolo. Ma era convinta che una pagina tra le migliaia della biblioteca di Urbania parlasse di me: che dovesse per forza parlare di me: salvandomi. Che mi permettesse di capire.
Lei molto ingenuamente crede che la letteratura sia la chiave della mia salvezza. Che io sia una serratura difficilissima e la letteratura una chiave passepartout.
Mi piacerebbe essere una lumaca e portarmi sempre dietro la casa. Oppure un riccio per chiudermi in me stessa.
La scuola superiore è il mondo. La scuola media è ancora la casa, oppure uno stagno. Se è uno stagno, la scuola superiore è il mare.
Affacciandomi alle superiori è bastato un quadrimestre per capire che non avevo i requisiti per entrare nel club degli altri e rendere così felice me.
Grassa, per niente attraente, timida e di poche parole. Sola, da subito, con la miseria di sentirmi considerata per la bravura nelle materie di scuola, per la responsabilità quasi adulta: una moneta che gli amici e i coetanei non accettano.
Tutte le decisioni che prendevo solennemente in camera mia scomparivano appena uscivo di casa.
Incidevo sull'universo degli altri come una carezza su un sasso.
Per esclusione, logicamente, arrivai all'identificazione del problema: io.
Io scritto maiuscolo, in stampatello, in grassetto.
Io come un meno davanti a tutte le mie idee e i miei gesti.
Come uno zero che si moltiplichi per tutte le mie parole, azzerandole.
Sarebbe bello riuscire ad allontanare la carovana degli altri e sentirsi a posto, soddisfatti delle gioie che ognuno può procurarsi da sé. E poteva essere ragionevole pensare che ci sarei riuscita, disprezzando ormai le mie coetanee, ritenendomi in possesso di una verità che le loro stupidaggini non potevano nemmeno immaginare, come un profeta che aveva visto giusto ed era stato scacciato, ma sapevo con sincerità che non erano i miei pensieri.
Per me la felicità è solo insieme, nella condivisione. E solo gli altri possono renderti felice.
Le persone (e le nonpersone) che non vogliamo deludere sono quelle che possono renderci felici (e nonfelici).
Perché la poesia, ce lo ha insegnato lei, mette a fuoco e racconta con parole note cose che non si sapevano ancora, molto spesso dentro di noi, cose ingarbugliate, mosse, invisibili, per le quali non si aveva ancora la giusta prospettiva. Per funzionare la poesia pretende che tu non legga solamente ma che ti metta in gioco dalla testa ai piedi, con tutto quello che ci sta in mezzo.
Anche se fai cose belle, dici cose belle, pensi cose belle gli altri non ti ascoltano perché tu non sei bella, ma brutta e grassa. E una cosa bella tenuta solo per te diventa una cosa brutta.
Dentro un rapporto funzionante devono girare bene mille rotelle perché i colpi di fulmine non esistono: i miei genitori si sono fatti bastare quel poco di interessi comuni che avevano: come i due ultimi pezzetti di un puzzle, fatti di rientranze e sporgenze non coincidenti, che per forza provano a incastrarsi.
Babbo è, semplicemente; perché babbo fa le cose che deve fare. Punto. Un'automobile affidabilissima, però modello base, senza nemmeno un optional.
Riceviamo un primo bacio quando se ne va e ne otteniamo un secondo nell'altro margine del giorno, quando torna. Il magazzino e le commissioni lo portano spesso distante da casa, e pranza tra le impalcature.
Il bacio è un gesto ormai sdoganato, consueto. L'abitudine gli ha tolto ogni imbarazzo e forse ogni significato. Lui deve farci passare dentro tutti i suoi obblighi di padre, come se li esaurisse completamente.
Perché nemmeno sono sicura dei suoi sentimenti nei miei confronti: essere mio babbo non significa volermi bene. Chi l'ha detto che devi voler bene a tua figlia per forza? Io non lo so. Io ho sentito la sua presenza come un recinto, non come amore. L'affetto lo si dimostra, mio padre è una brava persona, invece, nel mondo degli adulti. Quaggiù dove sto io non è venuto mai: una parola caparbia, un non arrendersi di fronte alla mia stupida ritrosia; provare a capirmi e poi esplorarmi, circumnavigarmi.
Invece da lontano, col binocolo, come un guardiano. Mio padre è solo un padre che si occupa dei propri figli e io sono semplicemente una figlia, non Caterina.
Fossi differente mi amerebbe dello stesso indifferente amore, come per un nome comune – figlia – e non per il mio nome proprio, con tutto quello che contiene.
E piango anch'io, perché siamo fatti d’acqua per il settanta per cento, e ogni terremoto è per forza un maremoto.
Sul suo lettone rosa sono violenta nel prendermi a calci, mentre faccio un ripasso per niente sintetico dei miei egoismi. Per ognuno chiedo scusa, chiedendole non il perdono, ma il tempo per provare a meritarmelo.
«Per anni mi sono chiesta cosa dovessero fare gli altri per essere miei amici. Veri amici. Dove dovessero venire a cercarmi. Quali prove dovessero superare, per esserci, perché li mettessi a parte delle mie aspirazioni e dei miei sogni. Come se io mi ritenessi speciale, o diversa, e fossi un lusso, per loro».
Con un cigolio doloroso la mia testa si apre di qualche millimetro e l'elenco di inadeguatezze si arricchisce di altre voci, perché gli obesi hanno molti luoghi negati, sarebbe stupido ammettere il contrario: però faccio scontrare questo elenco con un altro, che riporta i luoghi ai quali la mia intelligenza può permettermi di accedere, e in generale l'esserne provvisti, di intelligenza. E poi penso al coraggio e alle prove che può farti superare a differenza di chi non ne ha, e la timidezza invece quante gioie può escludere dalla vita, a priori. La bellezza gli aiuti che può dare, la faccia tosta, e il saper parlare, disegnare, giocare a calcio; e l'essere simpatici o avere senso dell’umorismo e così via. Una intera biblioteca di qualità, stati d’animo, competenze, predisposizioni, caratteri, elementi fisici che combinati danno come risultato noi.
Danno come risultato – io.
Dipende tutto da come li leggi, da cosa decidi di mettere prima e dopo, a cosa vuoi dare più importanza.