Lo stile dell’Autore è genialmente scarno, asciutto, secco, affilato come una lama nascosta in un pertugio segreto del cortile di un carcere. Lama che prima o poi diverrà ente vivente anche se, e forse proprio per questo, dispensatore della fine di altri enti viventi.
Richiami storici alle evidenze criminali italiane degli anni Settanta e Ottanta (i sequestri di persona, i detenuti politici, quell’isola che evoca l’Asinara) si fondono con apparizioni spettrali di gruppi di nuova criminalità mondializzata e demoniaca che segnano in modo indelebile i primi anni del Terzo Millennio (gli Enne che, schierati come una letale collettività Borg, ricordano i cartelli degli Zetas o le macchine da morte della Mara Salvatrucha).
L’Autore lentamente pone la storia, la trama, il romanzo stesso in una immobilità spaziotemporale a cavallo tra un passato che sanguina nel presente e un futuro che è già contaminato da quel sangue. Cattivi giunge così a colonizzare un momento narrativo che si esfiltra da storicizzazioni scontate, che riesce a toccare e a superare i luoghi e i confini della stessa scrittura che è elemento fondante e vivente della letteratura e a trasfigurarsi, come pochi altri romanzi, in territorio narrativo e narrante che riesce nell'impresa di portarsi al di là dei confini della letteratura stessa.
Quel finale misterico e insondabile, quella sacra rappresentazione dell’assenza totale di tutto e di tutti, quell’eco di parole rimaste ultime e uniche a cercare di sondare un deserto di atti, opere e omissioni fa di Cattivi un’opera da porre tra le pietre miliari di quel segreto sentimento che è il senso dello scrivere.
Un libro.
Cattivi, di Maurizio Torchio (Einaudi).