Cavour Cacciatore di Vampiri – Capitolo 13: Lo Sciame

Creato il 31 maggio 2012 da Elgraeco @HellGraeco

Due parole introduttive a questo nuovo capitolo di Cavour:

a) il Re del Sottosuolo ivi citato è apparso nel Capitolo 7. Questo per aiutare il lettore a orientarsi.

b) la parte 1844 è evidentemente ispirata a Piramide di Paura, l’ho concepita mentre ascoltavo questa musica.

c) questo capitolo, come gli altri, è stato scritto di getto, in un’ora, con una sola rilettura. Come vi ho detto, Cavour è prima di tutto esercizio letterario.

Attenzione! La seguente è un’opera di fantasia dai contenuti violenti, inadatta ai minori di spirito.

28 Dicembre 1835

Lucido le assicelle ricurve della botte, faccio accosto il lume, rileggo il marchio a fuoco, nero: polveri austriache. Ci sono ancora i sigilli, le croste dell’umido e fili di ragnatele.
Il sudore scorre in perle fredde sulla fronte, lo asciugo con la manica. Riprendo a strofinare con lo straccio. C’è puzza di vino rancido, di ingroppate sotterranee, ebbre e drogate.
Passi alle spalle, il fiato che si mozza, a mezzo respiro. Il grosso irlandese spalanca la bocca e l’unico occhio, porta un lume anche lui. Il Re del Sottosuolo nella sua cantina. Pietro, un nuovo taglio sulla guancia, a fianco.
«Che c’è, vuoi altri marenghi?» domando al cuoco.
«A-Avete portato il d-diavolo…» farfuglia quello, «avete portato il diavolo qui dentro! Andate via!»
Sbuffo. Riprendo a lucidare, avvicino il lume, non si legge ancora bene…
Una mano sulla spalla, tira. Mi forza a voltarmi. Arriva un pugno, laterale, traiettoria discendente sulla faccia. Il lume si sfracella. Una chiazza di lordura a terra s’accende come la lingua di Satana, scodinzola e si biforca. Il pavimento arresta la mia corsa.
La testa scoppia. Soffoco la nausea e comincio a ridere.
«No! No! Non c’è abbastanza danaro che potete darmi!» urla il cuoco. S’allontana, insieme all’alone di luce che porta con sé.
Pietro sbatte lo stivale sul focherello, lo spegne. S’accovaccia e mi prende per il braccio.

Germaine spalanca la porta, abbottonandosi la camiciola verde acido. Entra bestemmiando.
S’accomoda sullo sgabello accanto al letto. Finisce di sistemarsi, si sporge e mena uno schiaffo. La mia guancia s’arroventa. Mette la mano sulla fronte bagnata.
Si rivolge a Pietro: «È gelato.»
Lui si scosta dal muro, raccoglie un ciocco dal cestino intrecciato e lo mette nella stufa accesa. S’appoggia lì accanto, braccia conserte.
«Il padrone non ci darà problemi. Ci ho pensato io» fa lei rivolta a Pietro, «Non sono un mostro, m’ha creduto.»
Si sistema il petto. «Pietro ha pensato al resto. Un po’ d’oppio nella cesta del bucato della sguattera. Quella che m’ha visto attaccata lassù.» Indica col dito verso il tetto.
«Spiega tutto» rassicura. «Ora tocca a te.»
«Voi non capite, dobbiamo ammazzarlo!» Mi sollevo, mi sento mancare. Germaine mi rimette giù. «Io l’ho visto!» protesto.
«Pietro ti ha visto!» obietta, «Stavi per far saltare questo posto!»
«Ci serve la polvere. Ci serve… l’oppio.»
«Per fare cosa!?»
Mi sporgo, le afferro un braccio, energico. Lei sussulta.
«Per vederlo!»
M’accarezza, dove mi ha colpito.
«Per vedere il Signore Pallido…» Tremo.
S’alza, scuote il capo. Cammina verso Pietro, si volta, il lembo della gonna l’accompagna, lento.
«Lei…» sussurro, m’appoggio al cuscino umido, «vuol essere libera…»
Germaine apre la bocca, aggrotta la fronte. Gli occhi che dardeggiano.
«Per questo… È per questo che, quella notte, t’ha dato il dono.»

***

7 Dicembre 1844

Pietro richiude la finestra. Faccio abituare gli occhi all’oscurità. Scorgo un lume d’ottone, su un treppiedi accanto alla porta. L’acciarino accanto. Sul ripiano inferiore, la boccetta d’olio e due rotoli. L’accendo e lo schermo col mantello.
Pietro s’accosta alla porta. Sotto, la fessura è buia.
L’apre.
La litania si fa più nitida, pur se sommessa, come l’odore di spezie nel braciere. Voci maschili.
Il corridoio è scuro e deserto. Dalle nicchie s’affacciano statue su basi di marmo nero. Cornici d’oro con al centro sciocche tavole francesi. L’Italia, con mammelle enormi e floride, uomini che le giurano onore con mani tese in saluto, un concetto buono ormai solo per un posto come questo. Un Museo.
Seguiamo il canto fin dabbasso. Nell’atrio, il quadro del Re, quello di mio padre, c’è anche il mio. A trent’anni, senza pancia, prima di conoscere Germaine.
Proseguiamo, nel corridoio interno, fino a una porta di legno nero, la serratura nuova, dorata.
Pietro estrae un coltellino e si mette ad armeggiare.
Passi lenti, riecheggiano. Copro il lume. Do un colpetto sulla spalla a Pietro che si blocca.
Il suono riverbera, confuso, sembra provenire da ogni parte.
Pietro stringe i denti, si rimette a lavoro. Dà due botte forti. I passi s’arrestano, la porta s’apre.
I passi ricominciano, di fretta.
Entriamo, ci fermiamo sui primi gradini che scendono e richiudiamo. Pietro mette via la piccola lama per il coltellaccio, lo impugna con la sinistra, la destra attaccata al pomello. Aspettiamo.
Il guardiano s’allontana, portando l’eco con sé.

La sala del magazzino, le casse ammonticchiate ai lati. Bracieri ardenti, torce e fumo di erbe che si consumano in piccoli mazzi gettati al centro. Adoratori nudi, la pelle lucida d’olio, guardano il sarcofago. A esso hanno legato Germaine, livida.
Le bocche si muovono all’unisono a intonare il canto, sempre più cadenzato e aggressivo. La Dama d’Oriente si punge il palmo della mano con un stiletto. Fa gocciolare il sangue sulla pancia di Germaine.
Pietro mi fa cenno d’aspettare, poi indica tendaggi pesanti, ammucchiati, in un angolo. Tocca il lume, ancora al riparo del mio mantello.
Annuisco.
Lui prende la pistola dalla cinghia.
Mi sposto, restando accovacciato.
Un ronzio mi distoglie. Lo sento, netto, forte sopra al canto. Mi blocco, osservo la sala. Nel mezzo del pavimento. c’è una grata rotonda.
Un bagliore mi distoglie. Il canto s’arresta. La Dama d’Oriente taglia la carne, aprendo uno squarcio nel ventre d’un immobile Germaine, con la stessa perizia d’un macellaio.
Un nuovo ronzio, forte.
Uno degli astanti si volta e mi scorge. Urla. Non s’avvede del guizzo sul tombino. Della cosa che ne esce.
Mentre la torma s’accalca, la vedo volare piano, con ali d’insetto, mentre il brusio dal sottosuolo si rinforza, come uno sciame immenso.

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