Poi c’è chi ogni volta dice che qui si sta per socializzare e cui ogni volta rispondo –come per tradizione- che ci sono anche i DM, e che è spiacevole assistere a personalissime descrizioni di patologie intestinali di cui potremmo anche fare a meno. Questa è una prigione. Un luogo di riferimento comune, il punto “Informazioni” dell’aeroporto, la casa in cui abbiamo attaccato quadri e poster alle pareti, tendine colorate alle finestre, oggetti e reliquiari della nostra stanza di ragazzini. C’è chi sceglie un arredamento essenziale e chi ci ha trasportato tutte le barbie di quand’era ragazzina, i soldatini e la collezione di orsetti. C’è anche la casa al mare, disabitata e piena di vecchi giornali arricciati dal sale. Il luogo del delitto e la casa del morto: l’amico che sbadatamente ci ha lasciati e che sbadatamente non ha lasciato a nessuno la password del proprio account. C’è il tizio che controlla posta e aggiornamenti subito dopo aver fatto l’amore con una che conosce da un’ora, la lei che comunica al mondo di aver finalmente trovato un paio di scarpe giuste, mia cognata che racconta del suo cane, io che lamento l’aggressività del mio prossimo e giuro che qui non ci voglio più stare.
Per me questa non è una realizzazione. Essere letta sul blog non è che un misero inizio, che sia chiaro. Ma il tizio che mi ha aggredita per una frase troppo umana di Simenon non mi ha mai letta, così come non sa nemmeno chi sia Simenon anche se si concede il lusso di giudicarlo e di scrivere che era un cattolico invasato. Anche le parolacce gli sono state d’aiuto a esprimere la propria superiorità e un odio inaspettato e antico e che mi rammarica pur non potendo dargli alcun peso, giacché qui tutto nasce e tutto muore. Come faccio a dare un’anima a uno di cui non conosco l’odore e che mi fraintende ogni benedetta volta che mi legge? Credo che se gli fossi stata davanti mi avrebbe presa a schiaffi. Chiaro, non posso provarlo e nemmeno mi va. Casomai avessi ragione.
Parlo e scrivo in prima persona quando do la mia opinione. Mi metto nel mucchio, sto in prima linea tra i sociopatici, i compulsivi, quelli senza prospettive, tra gli alcolisti, tra chi sta uno schifo che non s’immagina nemmeno. Ma poi mi metto in trappola visto che divento di diritto una fottuta narcisista che scrive diari. Come se la prima persona servisse necessariamente a un racconto personale. Forse racconto più di me sotto falso nome. Quando mi chiamo Marina, Paolo, Giovanna e Justine duepuntozero. Ma che faccio? Inserisco in ogni brano una “spiega”?, delle introduzioni chiare del tema prima di partire con il solo?, degli N.B. da prima elementare a ogni pezzo?, metto su un corso on line per la lettura di testo e sottotesto?, consiglio agli insultanti di leggere un paio di buoni manuali di scrittura o di grammatica base? Li censuro restituendo loro un insulto? Non posso accollarmi anche il compito di spiegare ai critici letterari raso terra che la prima persona è una scelta di calore e, appunto, di riflessione.
Preferirei che ogni tanto qualcuno decidesse di astenersi da un giudizio che ripeto, non è sempre necessario, domandandosi, in un attimo d’insperata saggezza, se dall’alto della propria cultura rabberciata ha ragione oppure no. Ma come dice il feisbucchiano tuittatore: siamo in democrazia e dico il cazzo che mi pare! Amo l’utopia. Ci sto “a rota” dagli splendidi anni settanta e qui rimango.