celebrazione - il racconto di Merumeci
Da Foscasensi
@foscasensi
Mail di lunedì 9 giugno 2011; ore: 22.12
da: florestano@gmail.com
a: foscasensi@yahoo.it
R:Re:LA FRATELLANZA, il racconto di merumeci
PIANGEVA
come un mentecatto. In quel momento ebbi l'impressione che non sarebbe stato utile e perfino giusto mostrare compassione per la pena di quell'uomo. E naturalmente pensavo a Giacinta e Rebecca. Ma Merumeci si riprese da solo, guardò l'orologio sopra il banco e toccò un'ultima volta la foto.
“Ha presente cosa sia una passione senza estetica, signor Salza? Certo, qualsiasi grande sentimento in qualche modo è acceso da ciò che si vede e si tocca, ma se questa percezione non è tutta e soltanto compresa in se stessa, se diventa una figura – del resto, del sottile, di ciò che non ha forma: decida lei – allora stiamo parlando di arte. O, un po' peggio, d'amore.”
“Ecco, questa è Caterina (dico “è” perché non posso affermare che qualcosa sia cambiato, nemmeno dopo quanto è accaduto). E perché essa non possa essere sostituita nei miei affetti io non lo so; perché, mettiamo, non abbia provato il medesimo turbamento, la medesima rassegnazione nei confronti della gemella Benedetta, non ho potuto spiegarmelo nemmeno quando le ho sentite ridere del mio sconcerto. Esse si prendevano gioco di me, il traghetto attraccava e la costa elbana era inarcata sul porto con le sue spiagge. Una vegetazione di ligustro e fichi d'India ondeggiava sull'acqua. Loro ridevano e io premevo un fazzoletto sulle labbra con un presentimento immenso in pancia. Una sensazione inspiegabile, di roccia viva e bianco, di cava, di sale, di cose senza misura”.
Qui nuovamente si interruppe come per assicurarsi che fossi attento. I narratori disperati sono per lo più incuranti ma Merumeci no, vuole che lo si ascolti. Poi avrei capito perché.
“Alloggiavamo in una specie di casa color pesca. Alle finestre c'erano piante di erba luisa e la sera si poteva bere una tazza di tè ghiacciato in terrazza. Una coppa d'olio, petali e chiodi di garofano ardeva sotto il cerchio della lampada.
Merumeci, cosa faresti se ti tradissi?
Non ricordo di aver alzato gli occhi verso Caterina, anzi, penso di essermi piegato in due. Mi aveva chiamato per cognome. Il quel momento, per come la guardavo, per me lei era una striscia tenera di gamba, un malleolo e una voce lontana. Aveva una tunica che le arrivava a metà polpaccio. Un nastro le cingeva il torace appena sotto il seno, nella sua parte più molle. L'incarnato era splendente. E io immaginai questa donna tutto mordente e superba, immaginai questa donna presa, definitivamente annullata, perfino umile fra le braccia di un altro – e confesso che mi eccitai e mi vergognai come nessun uomo sulla terra.
Cosa faresti se ti tradissi? Caterina aspettava, una nuvola di farfalle frullava intorno alla lampada e io tacevo, vergognoso, sotto il pericolo di una catastrofica erezione.
E ora domando: perché, signor Salza, non ho imbastito una qualunque bugia? Perché mai quest'uomo è così dannatamente stupido?” e nel dire questo Merumeci fece scorrere la mano aperta dall'attaccatura della gola all'inguine, come una mostruosa mercanzia.
“Niente da fare, persi il momento scenico della menzogna. Caterina schioccò le labbra, si alzò e io agganciato al movimento delle sue natiche ebbi la sensazione che le luci si spegnessero su un sipario ottuso, un volto cieco deliziosamente ferito. Conclusivo.
Non so quanto tempo restai del tutto svuotato, con la testa fra le mani. Riuscii ad alzare gli occhi forse a buio fatto, quando la lampada era ormai spenta e dal mare o dalle montagne spirava un vento senza direzione. Benedetta sedeva poco distante e rollava una sigaretta. Lei non saprà immaginare quel che mi è passato per la testa, di quanto avrei voluto uccidere Benedetta e violarla, prima o dopo averla uccisa, di tutte le cose che montavano e si facevano via via più consistenti: calpestare, massacrare, buttare in mare. Lei penserà che in quel momento non fossi in me, che stessi fantasticando, oppure cercherà di scusarmi, e in qualche modo cacciare via quella sensazione di disagio che le leggo negli occhi.
Beh, le dico subito che non c'è niente di più sbagliato. Non dica che sono le azioni a contare, è una pura consuetudine, è l'abbigliamento che appiana l'ingiustizia necessaria del vivere tra gli uomini. Veda anche lei insieme a me, questa sera, ciò che mi investì quella notte. Avevo una donna uguale e vuota, della quale potevo disporre nel silenzio, la costa era calma e sulle barche batteva una luce come d'ossa. Mi guardavo le mani, o forse i piedi. Mi sentivo leggero, mi sentivo caldo come un lapillo d'incendio, e dal fondo (di cosa?) rampollava un'onda lenta, a cerchi lenti si avvicinava alle cosce di Benedetta, alle caviglie al collo, un'onda come pietra contro tutta quella carne crudele e tremante. Forse mi avvicinai, eppure sul più bello non riuscii a vincere l'ultimo tratto d'aria, l'ultimo involucro che restava da sfogliare prima di arrivare alla carne: Benedetta era una figura di donna grassa, con una sigaretta Lucky Strike fra il medio e l'indice, che parlava un miserevole linguaggio di violenza insanzionabile, disperante, del quale io non riuscivo a fare parte per quanto volessi affondare in lei con tutte le mie forze, infrangerla, metterla a tacere – sì, lo devo ammettere: per me, infine, restava intoccabile.
Per questo calzai i sandali e andai via. Non ricordo dove mi sia diretto. Sopra il porto le strade affondavano e riemergevano a volte quasi ampie, a tratti strozzate. Devo aver cercato un locale o una luce, un posto nel quale avrei potuto stordirmi fino a ché la realtà mi fosse sembrata sopportabile. Avrei accettato con gioia le chiacchiere sulle reti e la marea di qualche pescatore (ma parlano poi davvero di queste cose o me lo sto immaginando?), mi sarebbe andato bene un rapporto mercenario con un'isolana, non importa come e a che prezzo, o anche uno di quei saluti carichi di presentimento che fanno i vecchi e preludono sempre una lunga conversazione. Niente, niente. L'Elba raggiava di luce di luna e mi dava le spalle. Senza rendermene conto ero tornato sotto le siepi di erba luisa e la terrazza dell'albergo: sedetti su una panchina e tolsi gli occhiali. Così miope il porto era addolcito e fuori fuoco, un miele minerale confondeva i contorni in un'onda azzurra e bionda, le stelle gocciavano, se ci credessi direi con misericordia, lo spazio, quello delle nuvole, restava incalcolabile e vuoto.
Passai la notte all'addiaccio. È stato allora che ho davvero realizzato fino a che punto potesse importarmi o essere indifferente l'intero conciliabolo delle cose. Oh, io non sono una creatura tragica, o uno di quei mostri antichi dai sentimenti, o la mancanza di sentimenti, senza misura né tempo, e nemmeno uno di quegli indifferenti desolati e immensi, quelle intelligenze vertiginose, quei seducenti sanguinatori. Io sono piuttosto come una mosca: mi alletta quello che ho sotto le zampe il tempo in cui è sotto le mie zampe, e mi interessa di una passione leggera e senza discernimento – fosse pure un immenso pianeta di sterco di cane: se qualcosa cambia abbandono, semplicemente.
Molti anni fa a Siena ebbi una nonna che stava morendo. La vegliai per tre notti, la quarta mi assopii, la quinta dormii nella stanza accanto, la sesta scelsi di uscire con la mia fidanzata. Alle due e mezza una telefonata mi raggiunse mentre ero fra le braccia della mia amica. Soddisfai il mio piacere in fretta e guidai veloce come non avevo mai fatto. La stanza era già piena. “Appena in tempo”, dissero poi alcuni parenti. Avevo in bocca ancora quel sapore immensamente fisico che lei conoscerà, e una piacevolezza formicolante lungo i fianchi e l'addome. Quando le voltammo le spalle seppi come mia nonna si fosse trasformata, da persona malata, in una cosa senza più attributi. Ciò mi fece ridere moltissimo e alla fine il medico volle farmi un'iniezione per aiutarmi a dormire. Ripresi conoscenza a pomeriggio inoltrato. Quando sentii il mio respiro regolare, le membra rilassate e un vago senso di nausea capii che sarei rimasto sano tutta la vita, senza rimedio.
Come le dicevo, si era fatto mattino. Ero rientrato in albergo nel momento in cui il personale offriva le colazioni agli ospiti in una stanza rosa. Caterina non parve accorgersi di me. Si fece servire una sfoglia e un cappuccino in tazza e sedette a un tavolo dal quale si vedeva il mare. Avevo addosso l'ombra della sua schiena, ampia come uno scoglio, lontana e azzurra. Eppure potevo intuire che fosse torva in volto, forse imbruttita o addirittura vecchia, e conclusi che fosse sfiorita per la notte in cui aveva macerato il suo orgoglio. Era intossicata di rabbia: dalla sua nuca nuda, dal suo cranio folto rampollava, fiutava senza sapere dove fossi. Raggiungendola Benedetta si accomodò nella sala delle colazioni e dette le spalle al mare, uguale nell'astio e perturbante. Se solo avessi voluto, avrei potuto capire cosa stessero dicendo. Non sto scherzando, signor Salza: io posso conoscere tutto, posso sapere tutto di quelle due. Eppure non voglio: infatti mi alzai, facendo attenzione a non farmi notare, e uscii dal salone.
Mi feci trovare nella nostra camera fresco di doccia. Caterina entrò pallida come un velluto. Sai, dissi così senza parere, se tu mi tradissi io mi prenderei quel che resta della tua stupida anima e la mangerei.
Caterina si spazzolava: Tu sei un mentecatto, disse fra i denti.
Niente affatto, risposi, io sono il custode ultimo della tua anima. Hai forse dimenticato quello che è successo tre anni fa, in cui ti sembrava di morire e mi chiedesti di salvarti, a qualsiasi costo, anche a patto che mi prendessi la tua anima e la tenessi con me? Sei viva perché ho accettato, ed è esattamente quello che farò. Dato che il tradimento è la colpa senza redenzione io prenderò quel che mi spetta e tu vivrai il poco o il molto che resta all'involucro morto del tuo corpo finché non morirai del tutto e io non avrò nessuno da piangere e tu niente da patire”.
Qui Merumeci tolse gli occhiali e passò una mano sulla fronte, in un gesto così piccolo e stanco che non seppi che fare.
“Ora, lei si aspetterebbe chissà quale spiegazione, dottor Salza, e per la sua pazienza se la meriterebbe anche. Disgraziatamente, le situazioni non seguono l'ordine che sarebbe comodo per il nostro cervello. Le cose quasi mai si dipanano. Dunque, Caterina apparve come annientata. Con un'impotenza della quale resterò deliziato e commosso tutto il resto della mia vita riempì la borsa da mare con un costume di lycra, gli asciugamano, i boxer, un tubetto di crema solare. Mi guardò in faccia ed era contraffatta e sublime. Adesso vogliamo andare in spiaggia, mormorò sulla soglia, Benedetta ci attende”.
Fosca cara, quello che ha pensato o creduto in quel momento il tuo Florestano non ha alcuna importanza. Davvero non hai idea di quante birre abbia bevuto e quanto fossi stanco. Lo stesso Merumeci aveva finito la sua bottiglia o il suo bicchiere. Sono così sconvolto che non riesco nemmeno a ricordare. Ma c'è una cosa che non mi toglierò dalla testa: il peso che lo curvava, l'improvvisa aria di neve, l'affievolirsi della sua figura intera, e insieme un moto di ripugnanza che mi prendeva allo stomaco. Cos'era quella cosa che gli velava il volto, cosa torceva la bocca o scioglieva gli occhi, quale miseria aveva corroso quell'uomo? Strizzavo le palpebre e tornavo a guardarlo, con sempre maggiore difficoltà, mentre lui aveva ripreso le sembianze dell'impiegato grassoccio di prima. Adesso lisciava la foto col dito indice come i bambini. “Vede – concluse con molta educazione – io sto uccidendo Caterina e medito, non senza una dose di follia, ma anche con una geniale lucidità, di far prendere il suo posto a Benedetta. Ho i mezzi e la negromanzia per farlo. Solo vorrei che mi aiutasse a capire se ne vale a la pena”. Purtroppo ero già quasi del tutto ubriaco: Merumeci pagò il conto e mi trascinò sotto la luna dei Navigli.
Potrebbero interessarti anche :