celebrazione - la fratellanza

Da Foscasensi @foscasensi

Mail di lunedì 9 giugno 2011; ore: 02.11
da: florestano@gmail.com
a:  foscasensi@yahoo.it
R:Re:LA FRATELLANZA


“SONO IL MAGGIORE
 di tre fratelli e provengo da una famiglia contadina. Sa come vanno queste cose, è inutile che spieghi la quotidianità, le tradizioni eccetera. Per farla breve: una volta marino la scuola e chi trovo nella casetta sull'albero? Mio padre con la vicina Luisa. Avrei dovuto vedere il cappello (caduto?) ai piedi dell'albero, sentire le voci e invece non ricordo nemmeno cosa dissi o feci, o cosa sia successo dopo, signor Salza. La vicina Luisa cucinava biscotti e io li stritolavo sotto le scarpe. La notte scioglievo il sale nell'acqua degli ortaggi. Accoltellavo i teli delle serre.
Sopra ogni cosa sviluppai un attaccamento per mia madre.

Rifiutavo di lasciarla sola. Componevo versi in suo onore e li stracciavo prima di avere il coraggio di leggerli. Una volta piantai uno spillo nel collo di un fratellino perché si era gettato fra le sue braccia. Fu un episodio che non ebbe conseguenze ma di lì a poco, senza spiegazioni, fui mandato in collegio. La notte prima di partire mi chiusi in bagno per la rabbia e la dissenteria e cantai una profonda canzone di guerra.

La lontananza è una gran cosa, signor Salza. Il collegio era una casa comodamente seduta al sommo di una collina. Al mattino sbucavo fuori dalla finestra e quasi dimenticavo mia madre. Mi facevo bastare l’alba e il fresco, chiudevo gli occhi e lasciavo andare il sonno, lo lasciavo arrivare in forma di cerchi sotto le palpebre, acqua e luce e basta.

Coi compagni maturavo in fretta, dopo cena scappavamo in camerata e sperimentavamo i nostri corpi. Avevo un interesse scientifico e colpevole al pari di quel che succede con tutte le meccaniche nuove – e forse un po’ morboso, per la mia età.

Notavo che anche la mia voce cambiava; Don Luciano ci conduceva nella cantoria per la messa del mattino e osservava col suo occhio senza luce le nostre bocche. Io rovesciavo le note dell’offertorio con la sensazione di avere un vetro rotto nella gola o una manciata di terriccio. Sì, cantavo come un orco e Don Luciano era sempre più distante, sempre più spento, ci vedeva crescere senza poterci fare nulla e forse pensava: ecco come si rovinano le voci di dio. E io chiaramente mi vergognavo di quell’occhio verde e senza luce, senza interesse, di quell’occhio smorto. Di quell’occhio amatissimo, signor Salza!

Aveva un incarnato esaurito dal molto buio in cui si costringeva per i propri studi, appariva in classe senza un rumore. Una volta notai nel riprendere un compito un filo di pelle trasparente lungo il suo polso sinistro, come un bracciale disegnato a lama. Non ne feci parola con nessuno. Continuavo a seguire le sue spiegazioni, fu lui una sera a propormi Kleist, trasse dalla camicia un libro caldo del suo petto e se ne andò. Ero confuso. Continuavo a carezzare la coperta della Marchesa di O…, continuavo a ubriacarmi e mi sembrava che quelle pagine dovessero rimanere tiepide per sempre, e ciononostante credo di non aver capito nulla di quel racconto straordinario, della sua carica esoterica. Collegai le due cose molto più avanti.

Ma davvero non so perché stia continuando a raccontarle fatti così lontani nel tempo: cosa le può interessare di Kleist, di Don Luciano e di mia madre Caterina? Mi perdoni, al posto suo, dico se fosse lei a confidarsi,  probabilmente non mi importerebbe niente”.

E qui ha taciuto. Ha preso il bicchiere a due mani e lasciato andare all'indietro la sua testa calva. Quando è riemerso ha aperto la bocca come chi è distratto da un pensiero di non facile definizione, ha respirato e infine ha detto: “Ma di certo le interesserà dell'altra Caterina”. Quell'altra, detto così, mi accese. E certo. Le donne mi interessano sempre.

“Dunque, Caterina lasciò che la scegliessi. Allora non lo sapevo ma adesso sono sicuro che sia stato così. Sebbene nel momento in cui ci siamo conosciuti (non sapesse che si chiamava proprio come mia madre) non conoscesse la misteriosa identità del suo nome con quello di mia madre, sebbene fosse non bella e di un'intelligenza difficilmente interpretabile, Caterina ha sempre avuto il presentimento del possesso nel percepire il rapporto che ci legava via via più strettamente, e insieme la facoltà dell'intuito sviluppata in una pericolosa confusione di sfere, tra l'istinto e lo spirito, tra l'eccesso e il riserbo. Era capace di infiammarsi, di svuotarmi, di lasciare la mia mente senza possibilità di immaginazione né di rabbia. Eppure non aveva nulla di sovrannaturale, adesso lo so”.

“Sovrannaturale?”

“Infatti – rispose con tristezza –. È solo una donna, e violenta per giunta”. Detto questo lasciò scivolare la foto davanti al mio bicchiere. Era una giovane nascosta dietro un paio di  occhiali da sole Ray-Ban e un cappello, sembrava, di paglia. Più di tutto colpiva la curva del braccio, fermata nel gesto del saluto, e una strana aria che le sfocava la pelle della faccia, una specie di crudeltà. Debbo confessarti un certo freddo ai testicoli. Sì, doveva trattarsi di una donna straordinaria.
“Dunque fu Caterina a permettere di essere corteggiata e a lasciare che le cose si compissero esattamente così come si sono svolte”, riprese il mio amico.

“Ha presente quei giorni in cui tutto, dico tutto, sembra avere assunto non dico le dimensioni, ma perfino i rapporti, perfino i più impercettibili segni della miracolosa semplicità della pace? Era appunto una giornata di sole e veleggiavamo sul traghetto per raggiungere l'isola d'Elba, in Toscana. Naturalmente non si trattava di un'imbarcazione a vela, ma a me piaceva pensarla così. Il rumore del motore era confuso con le onde, Caterina e Benedetta scattavano foto sulla superficie luccicante del mare e io mi illudevo perfino di poter scorgere i delfini salutarci lungo i fianchi della Moby five e poi rituffarsi nel profondo. Cosa avrebbe potuto esistere in quel momento di più bello, signor Salza? le garantisco: nulla. Niente infatti era legato alle circostanze presenti, niente aveva attinenza col resto. Il mare era calmo e profondo, il sole batteva sul mare e il cielo aveva l'apparenza di un'urna acquosa in cui si compissero i movimenti celesti, nella cabina giovani donne vestite di bianco apparecchiavano una tavola di verdure, macedonie, carni e vini, il vento muoveva leggermente le tovaglie bianche. E sul ponte la mia donna mi prende la mano e avvicina le sue labbra alle mie e io mi abbandono pieno di fiducia al suo abbraccio, potrei restare lì per ore, potrei restare per sempre. Senonché la mia donna ha un sapore che non le conoscevo prima, una saliva  più viscosa e insieme, forse, leggermente più profumata, come di liquirizia. Allora credo di aver avuto una specie di sussulto, un filo dentro di me si è rotto e ho voluto tornare alla mia coscienza, imperfetta, sì, ma puntuale rispetto alla realtà delle cose, ma la mia donna mi ha trattenuto con una forza dove non c'era impazienza ma solo un tremito, un tremito via via più profondo che la scuoteva da dentro e si faceva spazio come un'unica, terribile risata. Allora mi sono divincolato del tutto e ho visto Caterina appoggiata al ponte così paurosamente allegra, Benedetta abbandonata fra le mie braccia, così gioviale... così indescrivibile che ho avuto una grandissima paura, e avrei dato qualsiasi cosa per non arrivare mai in porto”.
“Mi faccia capire, Caterina e Benedetta sono sorelle?”

“Gemelle”, rispose. E, smarrito, prese a singhiozzare come un povero mentecatto.


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