Ma come, Marquez l’amico di Fidel Castro, conoscitore del Che, uno degli scrittori che più ha combattuto Pinochet e che per trent’anni è stato persona non gradita negli Usa, che in Cent’anni di solitudine ha raccontato la storia della Colombia dalle speranze alla sottomissione all’imperialismo Yankee e alle sue multinazionali, ora è celebrato dai conservatori filo Usa e filo europeisti. Cosa che del resto accade anche nella stampa statunitense e anglosassone in genere, come se “Gabo” fosse avulso da ciò che ha scritto o si potesse ridurre la sua opera di cui forse i celeberrimi Cent’anni non sono il meglio, a una sorta di fiaba, di luogo dell’anima o di escursionismo nel senso del tempo.
Marquez era invece giornalista più che mai e la sua letteratura non era che la trasfigurazione del reale o caso mai immaginazione realistica che non può essere separata dalla vita concreta, così come Macondo è incomprensibile senza la strage bananiera del 1928 o la United Fruit. Evidentemente ciò che al potere piaceva di Marquez era la possibilità di essere frainteso, che la trasfigurazione del mondo fosse un buon modo per nasconderlo, che finalmente si potesse leggere un vero scrittore, ignorandone l’ispirazione. Non è forse un caso che i suoi reportage giornalistici che nulla hanno da invidiare ai suoi romanzi, anzi sono forse il meglio della sua scrittura, siano i meno frequentati dall’editoria. E in fondo è stato proprio il suo contrario,Vargas Llosa, divenuto ultraconservatore a trovare le parole per definire questo atteggiamento: «In politica no, ma come scrittore è un gigante».
Come se le due cose si potessero separare e come se la letteratura fosse solo un gioco di “machinae” immaginative e dei relativi stilemi. Ma quelli che vogliono un mondo muto, fatto di eccitazioni volgari o raffinate nella separatezza delle persone, amano molto questa arcadia. E la menzogna che la sorregge, amano le mille rivolte perse del coronel Aureliano Buendia. E che la rivoluzione sia solo una favola.