Centomila gavette di ghiaccio (Bedeschi)

Creato il 16 dicembre 2015 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
Difficile immaginare cosa sia stata la ritirata di Russia semplicemente leggendo un manuale di storia: poche righe e qualche cifra necessariamente imprecisa non bastano a rendere la portata di questo avvenimento terribile. Ma la memoria è uno dei doveri dell'umanità, e, come ho affermato spesso, i racconti di chi ha vissuto i due conflitti mondiali e gli eventi connessi sono il modo più efficace per passare da una registrazione di dati storici alla comprensione della portata dei grandi drammi umani.
Affrontare certi libri, però, non è così facile. Ed è imbarazzante anche etichettarli come 'narrativa', quando l'esperienza biografica viene mascherata da un romanzo che non ha nulla di fantasioso. Per questo motivo Centomila gavette di ghiaccio se n'è rimasto sui miei scaffali per otto anni prima che mi decidessi a leggerlo. E mi sono bastate poche pagine per capire che, in mancanza dell'assoluta convinzione di volerlo leggere, non sarei andata oltre i primi capitoli: la durezza della testimonianza di Giulio Bedeschi mette alla prova i nervi, lo stomaco e, soprattutto, la coscienza di noi donne e uomini d'oggi, che troppo spesso dimentichiamo le immani sofferenze vissute dai nostri simili meno di un secolo fa e quotidianamente sentiamo parlare di guerra, addirittura ascoltando le voci velenose di chi inneggia al sangue. Proprio a costoro, agli uomini dalla memoria corta, a coloro che esaltano i cannoneggiamenti sembra rivolgersi Bedeschi nella prefazione:
Le generazioni che hanno vissuto e sofferto la guerra e i giovani affacciatisi alla vita negli ultimi anni respirano ancora ai giorni nostri un clima d’angosciosa tensione: da un capo all’altro della terra odono ogni poco levarsi a minaccia l’antico urlo: guerra! Tacciono, implorando che l’ala nera sfiori soltanto e non si posi sugli animi, sulle carni, sui figli, o gridano il loro diritto e la loro volontà di non dovere ancora una volta morire a comando.
Centomila gavette di ghiaccio è un'opera che nasce dall'urgenza di raccontare qualcosa di inconcepibile. Leggendolo, mi è parso di scorgervi lo stesso bisogno di testimonianza che innesca l'istinto della scrittura in Primo Levi, come ha efficacemente scritto Italo Calvino. E, assieme alla volontà di raccontare le atroci sventure vissute assieme ai compagni alpini dell'ARMIR negli anni 1942-1943, Bedeschi afferma anche una fortissima dignità umana, un valore che nemmeno mesi e mesi di lotta contro la fame, i cannoni e il gelo hanno potuto annientare. Centomila gavette di ghiaccio è, infatti, una lapide di carta per tutti coloro che sono morti nella Campagna di Russia o che sono tornati svuotati della loro vitalità e riempiti di ricordi dolorosi. Lo stesso autore dichiara di aver dato voce ai morti, gli unici che della guerra possono considerarsi vittime e non complici, con due righe che richiamano quelle, simili, che chiudono La casa in collina di Cesare Pavese:
In questa storia la guerra è vista, per così dire, dalla parte dei morti, che non hanno conti da rendere e posizioni da sostenere.

Giulio Bedeschi (1915-1990)

Le vicende vissute dal corpo degli alpini e ricostruite da Bedeschi, celato dietro la figura dell'ufficiale medico Italo Serri, vanno dall'occupazione dell'Albania e dalle battaglie in Grecia fino alla spedizione dell'ARMIR nel Caucaso, nel tentativo di sfondare la linea del Don, strenuamente difesa da mezzi corazzati contro i quali le truppe italiane, poco e male armate e che si muovono a piedi e con i muli, non hanno possibilità di vittoria. Il senso della crudezza della guerra emerge già dalle imprese balcaniche, ma riemergono con ancor maggiore violenza quando, dopo il momentaneo rientro in Italia, i battaglioni si inoltrano nella steppa innevata, lasciandosi inghiottire da un mare di nebbia e gelo da cui pochissimi faranno ritorno. Sembra di avvertire il freddo che si insinua nelle ossa e attanaglia i muscoli, si avvertono i crampi della fame, tanto è vivido e lacerante il racconto di Bedeschi, che rimuove dall'idea della guerra qualsiasi sfumatura epica, svelandola per quella che è: un enorme massacro di cui nessuno, in patria, conosceva l'entità, e che per molto tempo ancora sarebbe rimasto nascosto, come una sorta di onta... e il finale lo rivela chiaramente senza troppe parole.
Stanchezza, fame, sete, freddo, sonno: questi cinque elementi si componevano in vario modo nel corpo di ogni uomo, e già i primi chilometri di cammino richiedevano una disperata tenacia per procedere sulla steppa; poi si spalancava l’inferno entro quell’orizzonte cancellato dall’implacabile biancore della neve, disperso dalla nuvolaglia sfilacciata in brume cineree; la vastità paurosa della steppa corrodeva non meno della fame.
Questo è uno dei passaggi più delicati della ricostruzione di Giulio/Italo, che, per gran parte del libro, mantiene un registro realistico e crudo, ma sa comunque rendere la compostezza di chi fu protagonista della tragedia dell'ARMIR attraverso uno stile preciso, corretto fino all'eccesso, sublime in certe descrizioni dei rari momenti di pace, nelle affettuose descrizioni degli alpini e nel ricordo dei loro martiri. A differenza delle testimonianze sul primo conflitto mondiale di Emilio Lussu e di Erich Maria Remarque, l'autobiografismo e l'emotività sono largamente ridimensionati e mancano lunghe riflessioni di esplicita condanna di chi della guerra tiene le fila. Tutto ciò è sostituito da descrizioni durissime, iterazioni di scene che rendono l'idea del continuo rincorrere la vita sfuggendo gli assalti nemici, dialoghi che ci fanno conoscere i protagonisti meglio di quanto farebbero pagine e pagine di rendiconto delle loro vite. Giulio Bedeschi fa da narratore esterno, descrivendo soltanto ciò che si vede e che si ascolta: lo sconvolgimento emotivo entra dagli occhi e dalle orecchie senza che l'autore abbia la necessità di suggerircene i toni, lasciando che sia l'orrore stesso della guerra a parlare e a raccontarsi.
Il bosco però era umido e freddo, a quell’ora; venivano i brividi, anche la coperta s’era intrisa di brina. Mancava ancora qualcosa in quel bosco perché divenisse veramente ospitale. Troppo silenzioso, forse; pareva d’essere sepolti sotto la nebbia e i rami. Era in quei momenti che gli alpini s’accorgevano che tra fuoco e tenebre in mezzo a tanti alberi dalla corteccia fradicia la cosa che mancava al bosco era la voce, la voce del bosco; e allora gli alpini gli prestavano la loro, come se fosse una vecchia intesa, una cosa da nulla scambiata fra amici.
Così nasceva il canto.
Mormorato all’inizio, quasi sèguito di pensieri accorati, gonfio di contenuto respiro, lamento più che grido poiché mai dissociato dal rimpianto per coloro che non cantano più attorno ai fuochi. Un’infinita nostalgia di cose perdute piangeva fra gli alpini immobili e gravi; pareva allora veramente, nel tenebroso silenzio del bosco, che innanzi alle rosse lingue guizzanti le parole e le voci venissero a sciogliersi grondando sangue e lacrime. Ma non importava, si sentiva che il bosco era diventato la casa, per gli alpini; c’era qualcosa di loro, ormai, che s’era posato su ogni foglia e aveva reso accogliente la coltre muscosa.
C.M.Articolo originale di Athenae Noctua. Non è consentito ripubblicare, anche solo in parte, questo articolo senza il consenso del suo autore e senza citare la fonte.