Manca un'ora all'apertura. I pali sono lindi, al loro posto, fallici ma non troppo, onde evitare di competere con gli astanti, mentre loro, le queen bees di questo improbabile alveare, si oliano le giunture, fanno stretching, fumano, ridono, bevono acqua, si sitemano i capelli, qualcuna forse farà sparire una striscia di bianco nel naso, come gli aerei nel cielo.Ce n'è una un po' meno truccata delle altre, un po' meno appariscente delle altre.Tutto in maniera relativa, s'intende, ma c'è qualcosa in lei che la fa sembrare un po' meno regina e un po' più ape. Ha lunghi capelli castani, mossi da onde di mare prima di una tempesta. Poco trucco sugli occhi, labbra rosse, come due tòcchi di sangue aggrumato. Sembra essere pronta molto prima di tutte le altre, forse per la cura meno ossessiva con cui si cala nella parte. Sembra anche meno serena di tutte le altre.E poco prima di uscire in scena si arrampica su un paio di sandali bianchi e traslucidi, tacco 16, a spillo. Mentre oscilla come un metronomo, con le anche in guerra con la fisica e quelle onde scure che la seguono fedeli, sembra non avere testa, anima, cuore, solo un cumulo di carne e ossa tenute insieme da brandelli di lattex.
Esce da dietro le quinte seguendo un suo copione, balla e sorride, sfiorando il palo solo di sfuggita; poi si inginocchia, viso al rosso del velluto, tergo al pubblico, si piega all'indietro, fino a che il sommo della testa non poggia a terra, scivola a terra, si gira, si rialza dopo aver leccato la base del palo, supina. I riflettori puntati in viso, tutta quella carne, quel sesso alluso e deluso, ed io non riesco a vedere che una cosa: i suoi occhi vuoti.
Probabile valga solo per me, visto che -letteralmente- dubito il resto del pubblico presente si sia recato in quel posto con l'intento di guardarla negli occhi.Avvolge una gamba contro il palo, mentre i nervi delle braccia si fondono con l'acciaio; l'altra gamba la segue. Sale più in alto, si contorce, gira intorno al suo asse e lascia cadere le braccia, come stesse per cadere.I polsi tatuati, le mani quasi a terra, quel coso che le spunta dal mezzo delle gambe, si, come fosse impalata. Sbava il tizio in fianco a me, sbavano tutti, famelici, ossessionati e testosteronici come nemmeno un gruppo di sedicenni in gita ad Amsterdam.Sono giovani, molto più di quanto mi aspettassi. L'età media, almeno, è più bassa del previsto. Qualche cinquantenne, un paio di sessantenni, ma la media è tra i venti e i trenta, drasticamente più vicina ai venti. Provo ad osservarli, a immaginare cosa pensino di lei, di lei come persona, se si rendono conto che lo è, se sospendano il giudizio su di lei per non darle della troia e su loro stessi per non darsi degli squallidi; mi chiedo come ci siano finiti, in quel posto torbido alla periferia di Firenze, tutti questi venti-trentenni che avrebbero tranquillamente potuto andarsene in discoteca a sbavare su due culi per cui non dovessero pagare e con cui, magari, avrebbero pure potuto parlare.C'è un ragazzo seduto ad un tavolo insieme ad un gruppo di amici che, ad un certo punto, assume un'espressione indicibile, tra l'eccitato e lo sgomento; volto lo sguardo per raggiungere il palco, dove la ragazza è nuda, carponi sul pavimento che si diletta a "giocare" con un cilindro in plexiglass.Ancora i suoi occhi, rivolti alla platea, gettati in mezzo al trucco come esche vive in mezzo a uno stagno putrefatto. E' una scena triste.
Poi mi ricordo di una cosa; poco prima, mentre si avvinghiava al palo, danzando, con i muscoli tesi, i nervi a vista, i capelli in volo, teneva spesso gli occhi chiusi. Li spalancava, ogni tanto, a comando, insieme a quei denti in fila senza sorriso, come se si ricordasse d'improvviso di non essere sola, di essere osservata.In quel momento, seppur a tratti, sembrava serena.Allora mi dico che forse le piace quello che fa, forse, addirittura, parte del piacere deriva proprio dal sentirsi così miserabile, vilmente desiderata, mercificata e barattabile.L'ho già detto, non sembra affatto felice, ma succede più spesso di quanto si pensi che l'equilibrio delle persone dipenda da qualcosa che è ben lungi dal chiamarsi felicità. Equiilibrio è una parola neutra. Anche questo l'ho già detto, in questo posto. L'ago della bilancia di alcune persone, può essere qualcosa di talmente contorto e tossico, da essere invisibile e incomprensibile ad occhio esterno. Talvolta anche interno.Il bisogno di sentirsi apprezzati, desiderati, e al tempo stesso migliori di coloro i quali apprezzano e desiderano, con la certezza di tenerli in palmo di mano; il disgusto che si può provare di sè, che non fa sconti nemmeno a chi, con ostentata noncuranza, si serve delle bassezze umane più torbide per risolvere il cubo Rubikiano che conduce a crearsi un equilibrio; la consapevolezza di aver scelto canali quanto meno discutibili per guadagnarsi pane e (auto)stima, mettendo una taglia sul proprio corpo, in un'asta in cui il miglior offerente si aggiudica il privé e un tassello insostituibile che non verrà restituito.E i tasselli potrebbero diventare cento, mille, milioni, fino a che il vuoto lasciato da ogni tassello si allargherà, si sgretolerà, originando una voragine incolmabile, senza rimedio. Quando ci si svuota di sè di cosa ci si riempie? Ci si può riempire di nuovo?
Ecco, è questo che ho visto, in lei, quel giorno lontano una vita, in quel posto in cui non sto a spiegare come sono andata a finire.E la cosa più triste, è che dico tutto questo scevra da moralismi di sorta. So che, tra quei sette miliardi di persone di cui è impastato il mondo, ce ne sono di pienamente felici di masturbarsi in pubblico, farsi sbavare addosso da un branco di esseri arrapati, lucrare sul proprio corpo nei modi più disparati, e pur non capendolo, mi sta benissimo, non ho motivo nè bisogno di giudicare.Ma lei non lo era, felice, e come lei, magari, tante altre.
Sono passati sette anni; mi domando spesso cosa stia facendo ora la ragazza col mare nei capelli.