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Cercasi priorità globali per la NATO del futuro

Creato il 20 giugno 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

NATO

di Stefano Lupo

Con la fine della Guerra Fredda la NATO ha inequivocabilmente perso il nemico reale, l’URSS, oltre che il focus strategico che la caratterizzava. Le numerose recenti ragioni intercorse che motivano la riduzione delle spese europee nel quadro dell’Alleanza Atlantica, tra cui la nuova concezione strategica delle forze armate e la crisi finanziaria e poi economica, sottendono tutte, ad ogni modo, al mutato contesto internazionale. La NATO si è scoperta non al passo con le nuove congiunture globali, con la necessità stringente di dover passare da forza di deterrenza difensiva a una struttura di reazione rapida da impiegarsi, ad esempio, in determinate missioni su scala regionale e/o planetaria, come nel riuscito caso della operazione anti pirateria “Ocean Shield”.

Non ci sono ancora tuttavia i margini per affermare che la NATO stia dispiegando la sua capacità di azione rapida nel migliore dei modi, specie nel momento attuale, in cui lo spettro di antichi confronti torna alla ribalta dell’agone internazionale e la missione in Afghanistan vede terminare il suo orizzonte (ma cinque soldati sono morti sotto fuoco amico). Molti, soprattutto nella parte orientale dell’Alleanza, vedono con favore il riproporsi della minaccia di una Russia intraprendente: l’antico focus, nella loro idea, dovrebbe riproporre l’originaria expertise della NATO e la sua ragion d’essere. Lo spauracchio moscovita serve soprattutto ai Paesi del Baltico e al Gruppo di Visegrad per riorientare l’attenzione di Bruxelles verso i loro confini e convincere l’asse occidentale europeo – in primis Francia, Germania e Italia, assai restii ad attività apertamente ostili contro il Cremlino (l’economia prima di tutto) – che la profondità strategica guadagnata dall’Alleanza nel 2004 con l’ammissione del fronte orientale ora deve essere “ricompensata” con una maggiore cura e dedizione da parte dei cugini occidentali e soprattutto di Washington.

Una speranza piuttosto vana, in fin dei conti. Sia da parte americana sia da parte di Parigi e Berlino, ma anche da Londra, sono arrivate precise richieste affinché i Paesi dell’asse orientale inizino a contribuire in maniera rilevante al bilancio NATO, come sta facendo, ad esempio, l’Estonia fin dal 2007. Se verranno spesi ingenti sostanze in politica di contenimento verso la Russia, esse proverranno dai Paesi direttamente minacciati e da Washington, nulla più.

Ciò sarebbe un bene, perché un drastico ritorno al passato, in termini di priorità e nemici, potrebbe apparire un passo falso. L’assai improbabile invasione dell’Ucraina da parte di Mosca non ha in sé il potere di dare una nuova struttura ragionata all’Alleanza Atlantica; al massimo può saldare il legame tra Baltico e Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca. Può forse anche incrementare il programma di “training rotation” di unità semi-permanenti, aumentandone l’interoperabilità e può infine rinvigorire il dibattito in Svezia sull’opportunità di integrazione nella NATO, così come in Georgia. Nel lungo periodo ci sono solo incognite, tuttavia.

La revenche russa non può e non deve essere il casus per realizzare e costruire una nuova Alleanza Atlantica che “viva alla giornata”. La precarietà dell’economia di Mosca, il suo continuo agire alterno tra Oriente e Occidente, la rapida rincorsa all’accordo economico/energetico con la Cina, una volta resosi fragile il legame con l’Occidente, esemplificano l’intrinseca debolezza del Cremlino, nonostante molti vedano in essa la sua forma di forza più pura.

La NATO rischia di incorrere pertanto in due distinti pericoli. Alla luce del termine della missione in Afghanistan, gettarsi nelle braccia del “nemico ritrovato” rischia sia di esacerbare il confronto tra i due assi dell’Alleanza, Est ed Ovest, stanti le divergenti priorità, sia di sviare la NATO dalle contingenze più importanti. Nonostante il fatto che la NATO abbia condotto più operazioni dalla caduta dell’URSS a oggi che nei quarant’anni precedenti, molti sono convinti che il ritorno russo favorisca l’Alleanza riportandola all’antico scopo. Tuttavia l’imperativo strategico deve essere quello di porre al centro del proprio operato la globalità d’azione, perché non si può più tornare indietro e nuove sfide chiamano all’opera.

world map
Missioni NATO – Fonte: Stratfor (2014)

I ventotto membri attuali dell’Alleanza hanno priorità geografiche non omogenee oltre che pericoli percepiti dissimili; i Russi non posso essere di certo il collante da riproporre. Questi aspetti collidono con il meccanismo critico dell’unanimità: un’azione militare e/o politica di concerto in una direzione univoca ha iniziato a non essere più una costante già con il conflitto in Libia (il primo momento in cui gli Stati Uniti si sono parzialmente defilati), per terminare praticamente del tutto con la gestione in toto in capo alla Francia per risolvere le turbative del Sahel, in primis nel Mali.

Un elemento prioritario che proprio il fronte africano ha il compito di evidenziare agli occhi dei leader dell’Alleanza, in particolare gli USA, è quello di evitare in ogni modo una ritirata troppo precipitosa dal continente. Non ci si riferisce solamente all’area sub-sahariana ma anche, forse soprattutto, alla determinante fascia costiera del Mediterraneo, con i due hotspot prioritari di Libia ed Egitto. La recente inclinazione egiziana verso approvvigionamenti d’arma russi, o le esternazioni del neo-eletto al-Sisi verso maggiori investimenti cinesi devono risultare dei moniti. Non può esistere nessun Pivot to Asia degli USA e, a latere, della NATO, se al bacino del Mediterraneo viene permesso di frazionarsi sotto influenze orientali, o del Golfo Persico (già la questione siriana e ora, di nuovo, quella irachena, devono essere focus prioritari) e l’asse europeo della NATO deve giocare una parte fondamentale nella ripresa dell’azione concertata, magari in raccordo con l’USAFRICOM americano.

Il “Pivot” richiama la politica orientale dell’Alleanza: la NATO non ha ancora sviluppato, in realtà, una vera e propria politica asiatica, neppure ora che l’emersione cinese su scala continentale e, economicamente, su scala globale, risulta un fatto acclarato. Va mantenuto come privilegiato l’asse con Giappone e Corea del Sud, anche per non rischiare, soprattutto nel caso giapponese, possibili derive destabilizzanti, mentre varrebbe la pena approfondire il discorso vietnamita.

Occorrerebbe una valutazione di ampio respiro su una possibile cooperazione con la Cina, per non esacerbare ulteriormente i toni del dialogo, magari prendendo spunto da quei dossier, come la lotta comune alla pirateria nel Corno d’Africa, o la ricerca congiunta di un punto di equilibrio nell’Afghanistan che verrà.

Infine, una NATO globale non solo di nome dovrebbe occuparsi sia dell’eclatanza del fenomeno legato al cyber (e il nuovo confronto con Mosca insegna quanto ci sia bisogno di una visione di Information warfare che non si focalizzi unicamente sull’asset informatico) sia delle nuove dinamiche geopolitiche legate all’evoluzione climatica: rileva in primis la questione del dominio della zona artica, se di dominio si può parlare, di rilevante importanza strategica e commerciale nel medio futuro. A tal ragione l’Alleanza deve pervenire a un fronte unico e coeso di fronte alla pretese russe, e cinesi, verso i nuovi spazi nordici, cercando di limitare nel contempo le pretese scandinave e canadesi. Il Consiglio Atlantico ha molto lavoro davanti e ancora una volta risulterà fondamentale la declinazione che gli USA vorranno attribuire alla vecchia NATO. Indietro non si torna.

* Stefano Lupo è Research Fellow presso Iran Progress e Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche e Politiche ed Economia del Mediterraneo (Università di Genova)

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Photo credits: NATO.com

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