Come il vecchio Honda ne Lo specchio degli inganni di Yukio Mishima vive nei fantasmi della sua esistenza, in continue reincarnazioni e sovrapposizioni d’identità, i tre teatranti confondono realtà e finzione. Pezzi di umanità danzanti, travestiti e imparruccati, schegge impazzite della società contemporanea verso una parallela ed immaginifica. Hanno piena libertà di movimento e azione, ma nessuna storia da raccontare. Scalfiscono a colpi di microfono il rettangolo terracqueo come fosse uno spartito di un compositore o pagina bianca dello scrittore. Un disagio esistenziale a cui non possono esimersi perché condizione stessa della loro creazione. È dunque la messa in onda e in scena del cortocircuito dei singoli attori, portatori insani di frizione con il mondo esterno. Prima di loro, i poeti maledetti come Vladimir Majakovskij, Anne Sexton, Antonin Artaud, Vincent van Gogh o Ian Curtis. Questa una lettura. Il malore che vomitano addosso ai presenti e la mancanza di empatia verso i loro drammi sembra faccia parte dello stesso spettacolo. Perché? Il teatro-danza che inscenano deriva da una sovrapposizione (mai intreccio) delle vicende dei tre: il giovane regista Lorenzo Gleijeses e il fedele Manolo Muoio incontrano la performer Anna Redi. Nasce Cerimonia, la loro personale commemorazione e, non a caso, tributo a Ian Curtis (Ceremony è una delle ultime canzoni dei Joy Division composta prima del suo suicidio, a soli 23 anni). Lorenzo Gleijeses (figlio d’arte di Geppy, attore, regista e fondatore del Teatro Stabile di Calabria) presenta in collaborazione con il Teatro Kismet OperA, il primo appuntamento dell’anno con la rassegna Il nostro tempo. Lo stabile barese riprende la sua vocazione originale di teatro contemporaneo sperimentale, proponendoci pièce brutali e decostruttive.
Il regista, seppur giovanissimo, vanta già diversi premi ed ha lavorato con nomi importanti come Luigi Squarzina, Regina Bianchi, Mario Martone, Julia Varley. Accanto al teatro di repertorio, con il padre e altri nomi illustri, da Napoli a Copenhagen, intraprende un percorso visionario ed emozionale tutto suo. Tecnica, esperienza e metodo di attori che incontrano l’assurdo. Dopo varie ri-scritture, intraprese due anni fa, si arriva ad uno spettacolo complesso, da loro bollato come work in progress. Perciò destinato ad ulteriori variazioni, proprio come avviene nella vita di ciascun artista. Altra lettura. La messa a disposizione di un palcoscenico che non può più raccontare, diventa la loro unica possibile celebrazione. Questa si esprime con suoni elettronici, parole (a volte suoni), movimenti convulsi, distorsioni cibernetiche, continue esplosioni e implosioni di mille culture contaminanti e invadenti. Loro, però, rimangono chiusi nella stanza e nella loro ossessione; gli spettatori assistono al loro dramma, ignari di quale anima prenderà il sopravvento. Fluttuanti interpreti dell’ossessione, vittime e carnefici del loro destino, si manifestano in continuo moto, come scintille o esseri vocianti, senza nessun luogo in cui riposarsi (né dentro la stanza, né nella realtà del vicino). Poeti del vuoto e della nostra società che confermano le parole iniziali dello spettacolo: «Ciò che chiamiamo passione in realtà non è energia spirituale, ma attrito tra l’animo e il mondo esterno». La potenza generatrice del vuoto e l’attrazione per esso dà loro la vita, la voce e soprattutto il movimento.
Gli scatti inseriti nell’articolo sono stati gentilmente concessi dal Teatro Kismet OperA di Bari