Dunque come in tutti gli altri paesi, un periodo di formazione, seguito da un processo di selezione meritocratico è inevitabile ed opportuno. Il problema in Italia non è tanto che i “cervelli fuggano” ma che non ci siano “cervelli” che, indipendentemente dalla loro nazionalità, possano venire a lavorare nelle università e nei centri di ricerca italiani. L’altra faccia della medaglia è che tanti giovani italiani riescono ad ottenere posizioni in altri paesi. Quando si guardano indietro e vedono l’Italia con gli occhi freschi di chi ha conosciuto dei sistemi diversi e più efficienti sono presi da rabbia e sconforto. Nel caso, non isolato, di un gruppo di giovani fisici che ha ottenuto una posizione permanente in Francia, c’è stato anche uno sforzo propositivo molto interessante: hanno scritto una lettera all’allora Ministro Mussi dal titolo “Alcune considerazioni sul sistema di reclutamento dei ricercatori italiani”. Anche se di qualche anno fa, ve ne consiglio la lettura.
Tra gli altri punti che toccano, mettono l’accento su un fatto fondamentale: il sistema così com’è non è sostenibile ed è destinato alla scomparsa. Negli ultimi anni c’è stata una veloce accelerazione verso il baratro. Solo una presa di coscienza, non unicamente da parte del mondo accademico, che ci ha sicuramente messo del suo nella destrutturazione del sistema che ci ritroviamo adesso, ma della società più in generale, sul ruolo della ricerca e dell’università nella vita economica e civile del paese potrà forse dare una spinta ad invertire una rotta che ora pare irreversibile.(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano)