Roma 20 dicembre 2013
E non ditemi niente,
uno può tranquillamente uccidere
giacché, sudando inchiostro,
uno fa quel che può, non mi dite…
Ci rivedremo, signori, con il pomo;
tardi la creatura passerà,
l’espressione di Aristotele armata
di grandi cuori di legno,
quella di Eraclito innestata su Marx,
quella del mansueto che suona rudemente…
Proprio questo narrava la mia gola:
che urio può tranquillamente uccidere.
Signori,
Lorsignori, ci rivedremo ancora senza involti;
in allora esigo, esigerò dalla mia fragilità
l’accento del giorno, che,
a quanto vedo, mi attese lungo tempo nel mio letto.
Ed esigo dal cappello l’infausta analogia del ricordo,
giacché, a volte, assumo felicemente la mia compianta immensità,
giacché, a volte, soffoco nella voce del vicino
e patisco
contando gli anni in chicchi di granturco,
spazzolando i miei panni a suon di morto
o seduto ubriaco sul mio feretro.
Io morirò a Parigi nello scroscio
un giorno che è già vivo nel ricordo.
Io morirò a Parigi – e non mi sbaglio -
come oggi forse un giovedì d’autunno.
Il 15 aprile del 1938, César Vallejo, moriva a Parigi alle 9:20 del Venerdì Santo a quarantasei anni.
Moriva di stenti ma soprattutto moriva di dolore: “del troppo dolore accumulato nell’enorme coscienza”.
A domani
Lié Larousse