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di Primo De Vecchis
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Il poeta peruviano César Vallejo, prima di emigrare alla volta dell’Europa per motivi politici, pubblicò nel 1923 un racconto lungo (o romanzo breve) dal titolo Favola selvaggia. Vallejo scrisse la novella in uno dei momenti più drammatici e fecondi della sua vita: nel 1922 aveva pubblicato la sua raccolta poetica più innovativa, Trilce, scritta per lo più mentre si trovava rinchiuso in carcere, accusato ingiustamente di aver “istigato intellettualmente” una rivolta con furti, saccheggi e un incendio doloso nella sua città natale, Santiago de Chuco.
Il racconto è tramato di elementi autobiografici, ovvero intimi, profondi, viscerali, poetici, benché si presenti in verità come una narrazione di genere fantastico. L’autore ha ottenuto così una creatura ibrida, sospesa a metà tra finzione e verità, narrazione e poesia, suspance e interiorità morbosa. In verità anche il genere “fantastico” scelto da Vallejo affonda le radici nelle tradizioni popolari andine, intrise di superstizioni e credenze sulle anime in pena (“aparecidos y penas”). Tale materia incandescente viene però filtrata dal gusto dell’invenzione e crediamo che il poeta sia stato in parte suggestionato dal racconto psicologico e perturbante di Guy de Maupassant, Le Horla. I protagonisti della favola andina sono tre, ai quali andrebbe aggiunto un quarto personaggio, ovvero l’ambiente circostante, una Natura feconda e matrigna, misteriosa e imperturbabile: «Era una mattinata grigia, di quelle cariche di elettricità e di orribili presagi che palpitano in continuazione sulle tristi e rocciose colline peruviane, che sembrano raccogliersi e accostarsi una all’altra, ad attendere sulle alture avvenimenti imprevisti, ciclopici e dolorosi parti della Natura» (p. 36). Balta Espinar è un contadino che vive in una casupola accanto a un podere, assieme alla moglie Adelaida, una donna di casa affettuosa e fedele. Il paesaggio è montagnoso, con appezzamenti di terreno e nuvole gonfie di pioggia, che si posano sulle alture brontolando. Ma a turbare l’armonia familiare sopraggiunge un terzo personaggio, che però sembra essere impalpabile ed evanescente come uno spirito disincarnato. Balta comincia ad avvertire la sua presenza nei riflessi degli specchi e dei corsi d’acqua, accompagnati da presagi negativi: la rottura d’uno specchio, il canto lamentoso d’una gallina. Vallejo adopera la sua maestria poetica, attentissima ai dettagli “insignificanti” della percezione (in alcuni casi sorprendenti per originalità e acutezza visiva), per creare una sottile tensione narrativa, che alimenta un vago senso di inquietudine: «campi neri e già arati assomigliavano a enormi drappi funebri sgualciti» (p. 28).
Il nucleo fantastico del racconto è forse costituito da questa misteriosa apparizione iniziale: «A Balta era successa una cosa strana mentre si guardava allo specchio: vi aveva visto passare una faccia sconosciuta» (p. 17). Il lettore rimane sospeso nell’incertezza: siamo di fronte a un fenomeno soprannaturale o a un delirio d’una psiche fragile e morbosa? La faccia che appare sempre più spesso alle spalle di Balta è reale o frutto della sua immaginazione?
Questa oscillazione vibrante del racconto, che toglie al lettore ogni certezza, lasciandogli molti interrogativi, pone Favola selvaggia nell’alveo della letteratura fantastica, con forti tramature psicologiche. In verità la domanda che si affaccia sempre più prepotente nella mente del lettore è questa: siamo di fronte a un delirio paranoico di Balta, costruito attorno al nucleo della gelosia? Un giorno un suo vecchio amico di paese afferma: «Non è strano. A me ogni tanto accade una cosa molto simile. A volte, e questo mi succede quando meno ci penso, la mia mente viene attraversata come un lampo da una luce e da un mondo di cose e persone che vorrei afferrare con il pensiero, ma che passano e svaniscono subito dopo che sono apparse. Quando sono stato a Trujillo, un signore con cui ne ho parlato mi ha detto che erano tratti di follia e che dovevo stare attento…» (p. 23).
Inoltre Balta scopre che la moglie è rimasta incinta proprio dal momento in cui la «occulta presenza materiale» (p. 38) si è manifestata per la prima volta attraverso lo specchio. Si affaccia quindi una ulteriore ipotesi fantastica e affascinante, che sembra riecheggiare un passo biblico: «Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero» (Genesi 6, 1-2). Nel nostro caso si tratterebbe di angeli caduti, demòni, spiriti impuri, incubi. Eppure Balta si convince sempre più che la «presenza perfida e misteriosa» (p. 24) sia reale e concreta. È curioso notare come a un certo punto l’estraneo alle sue spalle si configuri come un “doppio” del contadino, come se Balta fosse “posseduto” da un’entità esterna che gli inietta il suo veleno, plasmato di pensieri di gelosia, odio e morte. Prima dell’avvento della moderna psichiatria si credeva che la pazzia (schizofrenia, psicosi, persino il disturbo epilettico) fosse provocata dalla possessione da parte di uno spirito maligno, simile a un parassita, ma di natura “spirituale”. Vallejo sembra ritornare alle radici di tale pensiero magico e arcaico: il poeta non giudica, non spiega, si limita a mostrare con innegabile eleganza stilistica lo strano caso di un uomo che precipita sempre più negli abissi della follia e della paranoia. Ecco una batteria di frammenti che suggeriscono manie di persecuzione: «chi lo seguiva in quel modo? cos’era ciò che aveva visto?» (p. 22), «quel persecutore vigliacco che, a quanto pareva, tentava di fargli qualcosa, sicuramente qualcosa di brutto» (p. 27), «era diventato strano e nevrastenico» (p. 41). Nell’arco di questo sprofondamento psichico le immagini simmetriche dell’inconscio, cariche di negatività, sembrano riaffiorare sempre più fitte, tant’è che il personaggio non riesce più a distinguere la realtà oggettiva dall’irrealtà dei suoi pensieri deliranti: «E così facendo alimentava nella propria mente, come un’immensa tenia occulta, una radice nervosa la cui energia era risalita dalla linfa sterile di un vetro di malaugurio…» (p. 26).
Ma anche il lettore è trascinato in tale zona d’ombra. E allora si ha quasi l’impressione che la follia sia una sorta di percezione extrasensoriale, privilegiata e tremenda, dell’universo opaco e misterioso che ci circonda.
Il teorico Tzvetan Todorov, dopo aver scritto che «il fantastico, è l’esitazione provata da un essere il quale conosce solo le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale» (La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 2000, p. 28), parlando di una novella di Gérard de Nerval, aggiunge: «Aurélia costituisce quindi un esempio originale e perfetto dell’ambiguità fantastica. Il raggio d’azione di questa ambiguità è certamente quello della follia; ma mentre in Hoffmann ci si chiedeva se il personaggio fosse o non fosse pazzo, qui sappiamo a priori che il suo comportamento si chiama follia; quel che si tratta di sapere (ed è su questo punto che verte l’esitazione), è se la follia non sia in realtà una ragione superiore» (p. 43).
Dovremmo quindi risalire alle radici del fantastico ottocentesco, da Edgar Allan Poe a Guy de Maupassant, al quale però vengono apportate sostanziali variazioni. Vallejo, come molti altri autori latinoamericani, scopre che il “fantastico” calato nel contesto andino diviene “realistico”, ovvero che tale genere riesce a decifrare meglio la cultura popolare andina, intrisa di animismo indigeno. L’esito è un sincretismo raffinato e originalissimo, che lascerà il segno nei decenni a venire.
Vallejo inoltre (poeta scapigliato, cattolico, marxista, povero, ramingo, creaturale, chiaroveggente) trova nel confine tra sanità e follia una zona grigia di morbosa bellezza: «Dal suo cervello si spargevano tumefatte e velate immagini da incubo, quadretti allucinanti e dolorosi» (p. 52).
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