Una memoria del cardinale nato a Sora il 30 ottobre 1538. Cesare Baronio e la morte confortata del bandito Catena.
di Luigi Gulia *
Si chiamava Bartolomeo il brigante Vallante, detto Catena, da Monte San Giovanni di Campagna, bandito e condannato alla pena capitale, che Cesare Baronio cercò di redimere perché “sentiva pena e compassione” di questo suo conterraneo (portava il nome del santo titolare della sua chiesa nella natìa Sora) “per l’offese che si facevano a Dio con tanto danno de’ poveri”. Né la corte pontificia né quella del re di Napoli erano riuscite a debellare il dilagante fenomeno del banditismo che imperversava a causa di accentuati squilibri sociali cui gli storici del secondo Cinquecento dedicano da tempo grande attenzione. Cesare Baronio, prete oratoriano, figlio della carità di Filippo Neri e uomo di studio e di preghiera, seguì strade diverse da quelle dei bandi, delle taglie e delle repressioni. Si affidò alle “orationi continue”, a penitenze e digiuni, a tentativi di arrivare al cuore del brigante, perfino con l’ingenuità di fargli avere, con l’aiuto di padri cappuccini, una corona benedetta con altre sette per i suoi compagni. E per giunta una lettera gli scrisse. Catena, che era rozzo e illetterato, se la fece leggere rimanendone commosso, ma la conversione ebbe breve durata (non aveva chi potesse guidarlo nel sentiero interiore aperto da Cesare Baronio), allorché l’animo fu riacceso dalla vendetta di un amico ammazzato.
Riprese a compiere azioni violente nella Campagna romana e nel regno di Napoli. Arrivò a collezionare 54 omicidi oltre a ricatti, furti, rapimenti e danneggiamenti, tutti confessati, una volta condotto nelle prigioni di Tor di Nona, calzoni verdi giubba nera e scarpe rosse, trent’anni circa d’età, dopo la cattura avvenuta in una di quelle incursioni che i banditi tentavano alle porte di Roma in cerca di complicità e di potenti protezioni. Era venerdì 25 novembre 1580. Sul trono di Pietro regnava Gregorio XIII, che appena l’anno prima aveva acquistato dai Della Rovere il Ducato di Sora per donarlo al figlio Giacomo (i Boncompagni vi resteranno Signori fino al 1796). Cesare Baronio tornò ad essere vicino a Catena con un’assistenza spirituale parallela all’azione giudiziaria che si svolse nei quarantadue giorni del processo fino alla condanna capitale. Da quell’uomo “barbaro” ed “ignorante”, con l’esercizio della preghiera e della contrizione, trasse un “tal progresso di virtù che in un uomo di spirito e di lettere non sarebbesi di più potuto descrivere”.
Fu tramite di altre prove concrete della conversione maturata nell’accoglienza di parole di pace e di affidamento alla misericordia di Dio, sconfinata e senza riserve. Alla vigilia dell’esecuzione, sorretto dal Baronio, Catena fece scrivere lettere di perdono a quelli che egli aveva offeso per esortare ciascuno a vivere “pacificamente”. E pregò di scrivere perfino al Vicerè di Napoli che, se avesse avuto più vite, in segno di riparazione avrebbe voluto patire e versare il sangue di quanti egli aveva ucciso. La mattina dell’esecuzione, l’11 gennaio 1581, si comunicò “con molta devotione”; il giorno prima Baronio aveva raccolto la sua confessione generale “con molta cognizione de’ suoi errori”, rimanendo con lui in preghiera la notte intera insieme con i Confortatori dell’Arciconfraternita della Misericordia di San Giovanni Decollato.
Bartolomeo Vallante, rappacificato con Dio e con gli uomini, ci restituisce un Baronio “minore”, strumento umile della misericordia divina, che fu prete vero e servitore dei poveri (privi d’amore) e tale si mantenne, in pace e obbedienza, quando la fama della sua scienza filologica lo consacrò “padre della storia ecclesiastica” o quando, per la santità di cuore e di mente, Clemente VIII lo scelse suo confessore o, infine, quando il peso della porpora gli fece desiderare la sua dimora di apprendista della carità alla Chiesa Nuova.
Il lettore che voglia saperne di più e meglio sulla vicenda di Catena e di Baronio troverà fonti dirette nella voluminosa biografia che l’oratoriano Generoso Calenzio dedicò nel 1907 al cardinale sorano, avendo attinto dai codici manoscritti della Valicelliana. Si affidi poi al saggio del compianto prof. Fulgido Velocci, che nel 2004 ha pubblicato gli atti del processo di Bartolomeo Vallante, e alla recente, fondamentale impresa editoriale di mons. Donato Piacentini sulla società violenta e il brigantaggio cinquecentesco nella diocesi di Sora.
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