Portentoso.
Il film italiano dei fratelli Taviani che ha trionfato all'ultima Berlinale (20 anni esatti dopo l'ultimo trionfo tricolore con Marco Ferreri) è qualcosa di veramente potente, una pellicola dalla forza grezza, un'esplosione di visi, parole e gesti, uno schiaffo al cinema classico, un gesto di coraggio e di umanità davvero incredibile.
Forse è proprio nella sua eccessiva coerenza, nel voler dall'inizio alla fine portare avanti questo strepitoso esperimento cinematografico che Cesare deve morire può prestare il fianco a qualche critica.
Siamo nel carcere di Rebibbia.
Un gruppo numeroso di detenuti ha appena portato a termine il Giulio Cesare di Shakespeare.
Il film racconta i 6 mesi di prove prima dello spettacolo finale.
Cinema verità in tutto e per tutto. Non solo ci si affida a non professionisti ma sono gli stessi carcerati ad interpretare se stessi.
Tutto è vero, genuino, ogni viso (fantastici alcuni, ma il carcere ti segna), ogni luogo, ogni dinamica.
Si parte con i provini, straordinari, forse addirittura momento più alto dell'intero film. Uno dopo l'altro tutti i carcerati declinano le loro generalità commossi o incazzati, non c'è soluzione di continuità, nemmeno un attimo di respiro, i pianti e le grida si susseguono continuamente, e la sensazione che questi 10 minuti possano dar fastidio e mettere in imbarazzo attori molto più prezzolati è altissimo.
Scelto il cast si comincia a provare e sta tutta qui l'assoluta originalità del film, il colpo di genio. Il palco non è pronto, bisogna provare in ogni luogo libero del carcere. Lo spettatore per tutta la durata del film vede persone rapportarsi in maniera shakespeariana ognuno con il proprio dialetto, ognuno mettendo dentro le parole del sommo drammaturgo un pò della loro vita. I carcerati pensano solo allo spettacolo, ogni momento libero lo passano a provare. E la tragedia va avanti quasi in tempo reale, non c'è mai una stessa scena ripetuta, è come se lo spettacolo finale che avverrà nel palco noi l'avessimo già visto tutto durante il film. A volte si ha l'impressione di vedere scene di vita vera ma poi il regista sbuca sempre dietro di loro. L'uso degli spazi è grandioso, una finestra può diventare una vista dall'alto su Roma in rivolta, Cesare cammina per il carcere e viene salutato da tutti, l'intero carcere è dentro lo spettacolo.
Ci sono momenti di stanca, è quello che dicevo prima, il film per coerenza continua a mostrare le prove dei carcerati senza alcuna divagazione. E in alcuni personaggi secondari (specie i secondini) il dilettantismo è marcato.
Ma si arriva anche a momenti quasi lirici con il discorso di Antonio e la folla di Roma (i carcerati nelle finestre delle proprie celle) che si ferma ad ascoltare.
Forse sarebbe stato addirittura meglio così, che lo spettacolo fosse stato questo itinerante per il carcere, un esempio di teatro strepitoso.
Ma anche in palcoscenico i momenti davvero intensi non mancano, specie la straordinaria morte di Bruto.
E così con una struttura circolare che funziona alla grande, lo spettacolo si chiude come avevamo visto all'inizio.
Gli applausi sono scroscianti.
Poi, dopo 6 mesi nei quali l'Arte ha sublimato tutte le pulsioni e le difficoltà dei carcerati, si torna in cella.
Niente sarà più come prima, quella persona che ti sta a fianco non è più Cesare, non è più Cassio, non è più Bruto ma è Giovanni, Salvatore, Cosimo.
E la toga non c'è più, non c'è più una parte da imparare, non c'è più la meravigliosa distrazione delle parole.
C'è una cella e basta, una pena da scontare e un caffè da preparare.
"E' da quando ho conosciuto l'Arte che questa cella mi sembra una prigione" dice quello che fu Cassio.
Magari ne farai un altro di spettacolo Cosimo, si sa mai.
Magari fuori.
( voto 8,5 )
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