Cesare Maccari – Cicerone denuncia Catilina – Palazzo Madama
Nacqui, nel 1840, il 9 maggio, in Siena, fuori di Porta Romana, in una casa aderente ad una chiesa. Agli stipiti della porta di quella chiesa, vi erano due sedili di mattone, dove io solevo passare quasi tutte le ore di ricreazione, dilettandomi a farvi incavi e geroglifìci e figure a modo mio, liberamente.
Mia Madre era lo specchio dell’ordine e della pulizia : in casa non mi permetteva di portare tutto ciò che potesse insudiciare, ingombrare o recar disordine; e, perciò, io mi scapricciavo lì fuori, dove non mi raggiungevano le sgridate materne, che mi procurava la mia tendenza di fare lo scultore (tendenza che io ebbi fino dall’età di 7 od 8 anni) perchè la creta, con cui facevo i pupazzi e cavalli, ed i mattoni e le pietre, con cui lavoravo di mazzuolo, erano oggetti proibiti per la introduzione in casa.
Quindi, a me non rimaneva altro scampo che quello di fare di quei due muricciuoli la mia bottega. E quelli del Capitolo della chiesa dovevano, tutti gli anni, ripararli, nella ricorrenza della festa del Santo titolare. A me non pareva vero che venisse quel giorno: l’aspettavo con giubilo, perchè così mi si procuravano banchi nuovi e materiale nuovo, per farne poi distruzione. Altri bambini erano con me e lì intorno facevamo un baccano del diavolo. Allora non la buona Mamma mi sgridava, ma il Babbo, che usciva fuori della sua bottega di rivendita di sale e tabacchi, con una frusta in mano, e ci cacciava via tutti, minacciando.
Avevo, allora, e ho tuttora, predilezione per tutti gli animali e maggiormente per gli uccelli ed i gatti. Quando mi moriva qualche passerina o qualche usignuolo, avvezzi a prendere le briciole dalle mie labbra, eran pianti. Un giorno, un gatto mi aveva divorato un passerotto, che amavo molto. D’accordo con la donna di servizio, mi accinsi ad ammazzarlo, per punirlo. Ed ecco venuto il momento che quel briccone doveva pagare il fio. Il gatto era in cucina. Io presi la paletta del fuoco e dissi alla donna :
— Chiudi l’uscio. —
Mentre essa stava per eseguire l’ordine, il gatto, furbo, si diede alla fuga ; ma rimase metà fuori e metà dentro la cucina, fra l’uscio ed il muro. La povera bestiuola miagolava, miagolava, e per la paura e per il dolore. Fui disarmato da quei miagolii disperati, e gridai forte alla donna, come per rimproverarla :
— Lascialo, lascialo andare ! —
E lo salvai.
Nel giorno solenne della mia prima comunione (avevo allora undici anni) mio Padre mi fece indossare un bel soprabito nero e mi pose in capo un piccolo cappello a cilindro; soprabito e « tubino » che uscirono dall’armadio soltanto le feste, finché non si sciuparono alquanto con l’uso, ed allora egli volle che mi servissero anche per recarmi alla scuola.
Mentre, la mattina, aspettavo, per la via, che si aprisse la porta della scuola, i compagni spesso mi accerchiavano e, ridendo e schiamazzando, si prendevano beffe di me, e specialmente del mio « tubino ». E mi davano gomitate e spintoni, e giù, manrovesci, pugni, botte d’ogni maniera sul povero cappello mio, che ne rimaneva schiacciato.
Nascevano, pertanto, risse tra me ed i compagni e, talvolta, venivamo anche alle mani. Dagli e dagli, il tubino divenne come un cencio, ed io, quando tornavo a casa, ricevevo i rimproveri del Babbo, perchè me lo lasciavo ammaccare.
Quando io ebbi dodici anni, mio Padre si stabilì dentro la città, per la educazione ed istruzione de’ figliuoli: me, primogenito, e le tre mie sorelle. Andammo ad abitare nella casa di un capomastro muratore, tal Giovanni Vestri, un brav’uomo, di molto ingegno, che era stato in esilio, per motivi politici, in Volterra, dove, per vivere, aveva imparato a lavorare l’alabastro. Tornato a Siena, aveva portato con se parecchi blocchi di quella pietra ; e a me, che mi recavo molto volentieri a casa sua e gli stavo sempre attorno, curioso di sapere quello che ne avrebbe fatto, egli insegnò il modo di « mettere ai punti », con una macchinetta da lui ideata per eseguire riproduzioni.
Padroneggiato dalla passione di adoperare il mazzuolo e lo scalpello, avendo riconosciuto che l’alabastro era di uoa materia adatta alla mia età ed alla mia complessione gracile, feci una Madonnina riproducendola da un calco in gesso dell’originale di Luca Della Robbia; Madonnina che fu acquistata da un tal Ossicini, macellaio, il quale la teneva in bottega, accendendole davanti il lume tutti i sabati.
Feci parecchi altri lavori, eseguendoli dopo le lezioni della scuola e nei giorni festivi. Quando lavoravo in casa del Vestri, io vedevo spesso il Cassioli, il Ridolfi, il Visconti e molti altri di cui non ricordo i nomi, i quali mi fecero l’impressione che fossero uomini dell’altro mondo, tante divinità; ed io rimanevo a bocc’ aperta a sentirli parlare d’ arte e d’ artisti; e specialmente ammiravo l’alta statura imponente del Visconti, di cui rammento ancora la lunga zazzera ricciuta spiovente. E, alla presenza di quegli artisti, vedendo i pennelli e le tavolozze e le cassette di colori, e le loro tele, i loro studii, i ritratti, che essi facevano alle belle figliuole del capomastro, più volte dissi fra me e me:
— Potessi divenire artista anch’ io ! —
E fu allora che mi venne il desiderio di frequentare l’Accademia di Belle Arti, nelle ore libere, dopo la scuola. Studiai, con passione, l’ornato e, dopo pochissimo tempo, divenni sottomaestro.
Sedicenne, entrai nello stadio del Sarrocchi, allievo del Duprè ed autore del « Tobia », che è alla Misericordia di Siena. Imparai ben presto a lavorare il marmo ; eseguii, per conto del mio maestro, alcuni panneggi di figure allegoriche per il monumento Pianigiani a San Domenico e, contemporaneamente, modellai una figura di Mosè che schiaccia la corona, il mio primo lavoro in iscoltura.
Mentre frequentavo l’Accademia, il pittore Luigi Mussini si avvide che io disegnavo bene e gli venne il desiderio di farmi variare l’arte. Mi consigliò di darmi alla pittura, tanto più che ero giovane. Feci il tirocinio per sette anni e fui pensionato per la pittura nel 1867, mentre avrei potuto esserlo per la scoltura nel 1860. Ricordo che il Duprè, in tono affabile, mi fece un predicozzo che mi commosse: mi rimproverò di non aver avuto costanza nello studio della scoltura.
Dipinsi, per la prima volta, in affresco, studiando in compagnia del mio amico Franchi, che avevamo avuto la commissione dal marchese Pieri Nerli di decorargli la cappella gentilizia di Quinciano. Il Franchi eseguì, nelle pareti di essa, le « Virtù cardinali – ed io feci, nella vòlta, i (Quattro Evangelisti giovandoci del « Trattato » di Cennino Ccnnini, in cui trovammo appunto il metodo dì dipingere a buon fresco.
Subito dopo, nel Duomo di Siena, frescai nella cappella del fonte battesimale una storia di San Giovanni.
Cesare Maccari – Fabiola -1870
Venuto a Roma, e visitate le gallerie, sentii che il mio istinto, il mio sangue, non correva più dietro a quanto mi era stato insegnato, e mi diedi a studiare i classici Veneziani e gli antichi pittori Toscani. Eseguii un lavoro secondo i miei intendimenti, e questo fu la Fabiola, che esposi, in Roma, alle Terme Diocleziane, nella Mostra Sacra aperta, nel 1869, da Pio IX. Nel giorno della solenne premiazione, fui condotto, quasi a forza, perchè ero, e sono, timidissimo, fino ai piedi del Pontefice dal professor Francesco Grandi, mio buon amico, per ricevere la medaglia di bronzo, che mi fu conferita a quella Esposizione.
Quel quadro, però, mi fece disgustare con il Mussini, perchè non avevo seguito la sua scuola :
— Tu sei nella via della perdizione, — mi diceva egli.
Dipinsi, poi, per la chiesa di Santa Francesca Romana, due figure: David e Mosè, nei peducci dell’abside. Intanto, per mezzo del rappresentante la Toscana presso il Pontefice, Bargagli, ed in seguito alle premure fattegli dal Mussini, potei ottenere un alloggio nel Palazzo di Firenze, dove conobbi il rettore del Capitolo Piemontese Crocè Mochet, che, veduto il quadro Fabiola, mi propose di dipingere la chiesa del Sudario, nella quale, per le sole spese e per amore dell’arte, lavorai intorno a sette quadri.
Dal 1872 al 1882, non avendo più la pensione, mi diedi a fare parecchie tele ed acquerelli d’ogni genere, per negozianti d’arte italiani e stranieri, tra cui il Goupil di Parigi. E trascorsi così i miei più belli anni giovanili in quei lavori commerciali, che, relativamente, mi fruttarono più di quanto guadagno adesso.
Un aneddoto.
]Mentre io dipingevo a fresco, nel Palazzo Civico di Siena, un tale, che aveva commesso non so più quale delitto, fu salvato dall’ ira del popolo, che voleva fare su di lui giustizia sommaria, e condotto in prigione attraverso una scala vicina alla sala monumentale nella quale io lavoravo.
Verso sera, ripensando a quel fatto, per associazione d’idee, riandai ai tempi medioevali, in cui avvenivano scene di simil genere ed ancor più terribili, e specialmente a quella di un condannato a morte, che da uno sgherro fu gettato da una finestra del palazzo.
Siccome io non sentivo, e non sento nemmeno ora, la fatica, così, ad onta del mio proponimento di andarmene presto, rimasi a lavorare fino a tarda ora. La serata era fredda, anche perchè aveva nevicato tutto il giorno.
Ad un tratto, mentre e per i tristi ricordi storici e per l’ora avanzata, m’invadeva una grande melanconia, fui scosso da un improvviso forte rumore. Tale imprevisto fracasso, unito alle idee nere che mi turbavano la mente, mi mise tale subitaneo spavento da farmi fuggire giù nella piazza, senza nemmeno rivestirmi, con il camiciotto e le ciabatte da lavoro.
Il contatto dell’aria notturna frizzante mi fece tornare in me:
— Ma perchè son qui ? —
Risalii nella sala e mi avvidi che quel rumore era stato prodotto dalla caduta del tubo della stufa, che si era ghiacciato!
11 novembre 1906
( Cesare Maccari, Memorie giovanili autobiografiche di letterati, artisti, scienziati, uomini politici, patrioti e pubblicisti, 1908 )