Cesare Pavese nel ricordo di Natalia Ginzburg

Creato il 27 agosto 2015 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua

Scelse il sonnifero Cesare Pavese per sottrarsi ad una vita piena di delusioni e solitudine. Era il 27 agosto 1950. L'autore piemontese aveva deciso nove giorni prima di smettere di scrivere, oppresso dallo schifo in cui si trovava immerso, ma l'idea del suicidio lo accompagnava da diversi anni, se già nelle prime pagine de Il mestiere di vivere, il suo diario personale, letterario e filosofico, si affacciano pensieri sull'abbandono eroico della vita.

Segnato dai lutti che subisce fin dall'infanzia, con la morte dei fratelli, del padre e poi di un amico, dalle due guerre, dalla persecuzione politica, dall'esperienza del confino e da numerosi delusioni sentimentali (in particolare quella dovuta all'attrice americana Constance Dowling), Pavese fu sempre un personaggio malinconico e schivo, al punto che alcune pagine del suo diario ne trasmettono un'immagine connotata da misantropia e scherno nei confronti di tutto quanto appare confortante e amabile.
Non gli furono di sufficiente consolazione il riconoscimento letterario arrivato negli anni '40, la fervida attività di traduttore presso la casa editrice Einaudi, dove incontrò grandi personalità della scena culturale italiana, da Leone e Natalia Ginburg allo stesso Giulio Einaudi, da Fernanda Pivano a Italo Calvino, né ottenne soddisfazione dal Premio Strega arrivato pochi mesi prima del suicidio, nel giugno 1950 per La bella estate.
Cesare Pavese portò sempre con sé un grande rancore nei confronti della vita, il bisogno di affermare qualcosa con la propria esistenza, anche attraverso la scelta estrema del proprio annientamento. L'autore aveva una forte esigenza di raccontare e di raccontarsi, ma una grande difficoltà a capire come farlo: il turbamento è evidente ne Il mestiere di vivere, dove Pavese si interroga sulla realizzazione delle sue opere, sull'analisi delle sue poesie, sul metodo per rendere ogni pagina significativa di ciò che lui stesso è - o desidera essere. Le sue pagine sono pervase da una struggente urgenza della narrazione e della testimonianza, che, se assume frequenti spunti rabbiosi, lo fa per la consapevolezza di non riuscire a trasferirsi pienamente nelle parole, abbattendo una barriera eretta dall'autore fra sé e il mondo esterno.

Forse perché Cesare Pavese voleva controllare l'incontrollabile, ciò che sfugge a spiegazioni, a rassicurazioni, ciò che fa parte delle scelte degli altri. Anche se in molte parti del suo memoriale, spesso contraddittorio come solo un diario può e deve essere, Pavese afferma di amare la sorpresa e la meraviglia, così come la vita, la testimonianza più intensa sulla sua morte ci consegna un uomo rassegnato e spaventato da un realtà labirintica in cui non riesce a trovare un posto accogliente. Tale è Pavese nel ricordo di Natalia Ginzburg, inserito in Lessico famigliare.

Pavese si uccise un'estate che non c'era, a Torino, nessuno di noi. Aveva preparato e calcolato le circostanze che riguardavano la sua morte, come uno che prepara e predispone il corso d'una passeggiata o d'una serata. Non amava vi fosse, nelle passeggiate e nelle serate, nulla d'imprevisto o di casuale. [...] L'imprevisto lo metteva a disagio. Non amava essere colto di sorpresa.
Aveva parlato, per anni, di uccidersi. Nessuno gli credette mai. Quando veniva da me e da Leone mangiando ciliegie, e i tedeschi prendevano la Francia, già allora ne parlava. Non per la Francia, non per i tedeschi, non per la guerra che stava investendo l'Italia. Della guerra aveva paura, ma non abbastanza per uccidersi a motivo della guerra. Continuò tuttavia ad avere paura della guerra, anche dopo che la guerra era da tempo finita: come, del resto, tutti noi. Perché questo ci accadde, che appena finita la guerra ricominciammo subito ad aver paura di una nuova guerra, e a pensarci sempre. E lui temeva una nuova guerra più di tutti noi. E in lui la paura era più grande che in noi: era in lui, la paura, il vortice dell'imprevisto e dell'inconoscibile, che sembrava orrendo alla lucidità del suo pensiero; acque buie, vorticose e venefiche sulle rive spoglie della sua vita.
Non aveva, in fondo, per uccidersi, alcun motivo reale. Ma compose insieme più motivi e ne calcolò la somma, con precisione fulminea, e ancora li compose insieme e ancora vide, assentendo col suo sorriso maligno, che il risultato era identico e quindi esatto. Guardò anche oltre la sua vita, nei nostri giorni futuri, guardò come si sarebbe comportata la gente, nei confronti dei suoi libri della sua memoria. Guardò oltre la morte, come quelli che amano la vita e non sanno staccarsene, e pur pensando alla morte vanno immaginando non la morte, ma la vita. Lui tuttavia non amava la vita, e quel suo guardare oltre la sua propria morte non era amore per la vita, ma un pronto calcolo di circostanze, perché nulla, nemmeno dopo morto, potesse coglierlo di sorpresa.

Non c'è, nelle parole della Ginzburg, alcun intento di condanna o giudizio, anzi, nel corso del suo romanzo autobiografico, ricordando il lavoro alla casa editrice e l'amicizia di suo marito con Pavese, ritorna più volte una profonda manifestazione di affetto nei confronti di quest'anima tormentata.
Natalia Ginzburg afferma che Pavese non amava la vita, mentre lui, fino agli anni '30, lo negava. Il 26 aprile 1936 Pavese scriveva:

Gente come noi, innamorata della vita, dell'imprevisto, del piacere di "raccontarla", non può arrivare al suicidio se non per imprudenza. E poi il suicidio appare come uno di quegli eroismi mitici, di quelle favolose affermazioni di una dignità dell'uomo davanti al destino, che interessano statutariamente, ma ci lasciano a noi.

Ma basta scorrere le pagine de Il mestiere di vivere per cogliere il progressivo incupirsi dei toni, con una riflessione sul male, sull'opportunismo nei rapporti umani, sulle delusioni cui, inevitabilmente, vanno incontro coloro che nutrono grandi aspirazioni. Il suo, forse, era l'amore per la vita come lo intendeva Schopenhauer, un sentimento tanto intriso di idealismo da non poter trovare sanzione altrove che nella morte. O forse non sapremo mai indagare abbastanza a fondo il pensiero di questo grande autore, così impegnato a ordinare la realtà e la sua stessa letteratura, come se non gli fosse possibile vivere senza spiegare il senso della vita.
In una cosa, però, siamo certi che la Ginzburg non sbagliasse: Cesare Pavese aveva davvero una grande lucidità mentale, una razionalità calcolatoria, come emerge dal pensiero del 5 maggio 1936:

Vivere è come fare una lunga addizione, in cui basta aver sbagliato il totale dei primi due addendi per non uscirne più.

Qualcosa, nei calcoli di Pavese, era, in quel 27 agosto 1950, assolutamente giusto o assolutamente sbagliato. Ma noi ci siamo forse eccessivamente dilungati, se quello che, lasciando la vita, egli ci chiedeva, era di non fare pettegolezzi. Rientreremo forse nella schiera di quei tutti che Pavese perdonava congedandosi dal mondo, almeno beneficiando dell'attenuante di aver parlato di lui per offrirgli un degno ricordo in questo sessantacinquesimo anniversario della sua scomparsa.

C.M.


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