Changes.

Da Fishcanfly @marcodecave

Le frequenze riportano una canzone. Sto cambiando, dice, sto cambiando. Guardo fuori dal finestrino, mentre al mio posto c’è chi preme l’acceleratore con degli abbaglianti che accecano solo da dentro. C’è un punto che fisso costantemente davanti a me ma più la velocità aumenta e più questo punto si sposta, sempre più in là, sempre più avanti.

Ho pensato così all’infinito e al carcere. Ho pensato all’infinito che è un carcere nel quale tutto cambia e tutto resta impassibile all’interno di una libertà che tenta di evadere da se stessa. E poi immagini il mare. Come se l’infinito avesse delle onde, lunghe onde che cercano di afferrarti. Di trascinarti via. La mano di un gigante volubile pronta a portarti dentro quel ghiotto pulsare inconsistente. Ed invece non c’è nessuno, né un motivo, né una forza capace di inghiottirti e lasciarti in apnea per qualche minuto. Tutto è fatto per avere fiato, ma è incredibile come non si faccia altro che cercare un pretesto che ci tolga il respiro.

Per sentirci vivi abbiamo bisogno di assomigliare ai morti. Provare costantemente un senso di desolazione. Creiamo spazio, ecco tutto. Ci riempiamo per svuotarci e convincerci che abbiamo ancora posto per qualcosa o qualcuno. La felicità, del resto, perfino la felicità è una forma di rassegnazione. E quando ci si rassegna alla felicità, ad una felicità, a quella felicità, si ammette, come ammutinati, che non abbiamo più un pretesto per essere tristi.

Sto cambiando, dice, sto cambiando. E mi sveglio ogni mattina, mettendo i piedi a terra e sentendo il freddo del pavimento, mi sveglio ogni mattina perché mi hanno abituato a svegliarmi e riiniziare. Non importa con quale umore, con quale faccia. Ti alzerai, berrai la brodaglia di caffè che ti sei preparato dalla sera prima e sarai pronto. Sarai pronto. Perché più di qualsiasi altra cosa, nella vita, conta essere pronti. Pronti a fare sacrifici, pronti a rinunciare, pronti a dire la verità, ad essere tutti uguali davanti alla legge, pronti a perdonare, pronti ad amare, pronti a fare i conti o a tirare le somme. Pronti a togliere il malocchio, pronti a fare figli, pronti a trovarsi un posto sicuro, a comprarsi casa, pronti a frequentare i “salumi” letterari, pronti ad onorare il padre e la madre e anche qualche santo in cielo, pronti a gridare “E’ pronto, a tavola!”.

Sto cambiando. Sto cambiando. E più cambio e più tutte queste persone così prontamente pronte, sono impreparate, o sarebbe meglio dire che sono “impronte”, nient’altro che il calco di un cammino già visto.

Rassegniamoci, la maggior parte di noi non cambierà mai. Si ritirerà nel guscio come tartarughe millenarie e guarderà dalla collinetta della sua gobba il passare lento ed estenuante delle stagioni.

Perché in fondo è rassicurante fissarsi davanti allo specchio e riconoscerci, sapere che siamo ciò che  eravamo ieri e che saremo domani. Mantenere i medesimi lineamenti a cui tutti, fuori, si sono abituati. Dobbiamo farci riconoscere, sempre, dobbiamo ridare il nostro aspetto fedele, come un tempo, dobbiamo farci trovare “pronti”, ancora una volta.

Cambiare vuol dire vivere, ma vivere non vuol dire mettere in scena tutti questi teatrini massonici di cui siamo i primi attori. Applausi su applausi per cose che dovremmo sbagliare soltanto per il gusto di sbagliare. Si dovrebbe rinunciare a fare la cosa giusta al momento giusto per assomigliare quanto più possibile ad un errore. Perché se l’uomo è stato un errore di Dio, solo assomigliando a quell’errore, saremo finalmente umani. Possibile che nessuno abbia voglia di sentirsi altro da quello che è? Guardatevi intorno, lasciate la mano della persona che avete affianco e innamoratevi del primo sconosciuto presente in questa sala.

Guardate i fiumi, guardate i fiumi e fate come loro.

I fiumi non decidono di buttarsi nel mare. Lo fanno.



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