Non capisco perché le cose devono sempre essere così difficili. Non mi frega delle varie leggi di Murphy, buone solo per farsi un sorriso, ma della vita vera. Mai una volta che si svolga secondo ciò che abbiamo immaginato, o quello che ci aspetteremmo o, almeno, nel modo più logico e razionale.
C’è questo editore francese che vorrebbe lanciare una rivista in Italia e che, per farlo, ha scelto di pubblicare un’inserzione su un sito molto specializzato e misconosciuto. L’annuncio era quanto di più vago ci potesse essere, tanto che pensavo fosse la solita fregatura o tutt’al più, qualcuno che volesse rifilare un’enciclopedia con bicicletta in omaggio. E invece è una cosa seria, a cui abbiamo lavorato come matti fino a ieri, giorno dell’appuntamento con l’editore in studio da noi.
E questa è stata la mia grande e, a quanto pare, giustificata preoccupazione.
A differenza che nel Nord Europa e buona parte del Nuovo Mondo nei quali è consuetudine condividere un unico appartamento come abitazione e luogo di lavoro, in Italia è ancora una prassi duramente consolidata la strategia del fumo negli occhi o se vogliamo citare Shakespeare del Tanto rumore per nulla.
Le grandi agenzie di pubblicità o gli studi più alla moda, usano infatti abbindolare i clienti con ambienti sfarzosi, segretarie dalla coscia lunga, creativi addobbati proprio come ci si immagina debba agghindarsi un artista della comunicazione o roba del genere. Ciò che il cliente spesso non sa, è che dietro alla bella scatola, al tavolo riunioni di cristallo, agli enormi quadri astratti alle pareti, l’acqua minerale Perrier offerta nei bicchieri di cristallo, l’avvenente pr e tutto il resto, non c’è nient’altro; solo la carta stagnola, ma niente cioccolatino. Perché il cioccolatino, o meglio, il motore dello studio o dell’agenzia, sta da un’altra parte; davanti al computer a casa propria, in studioli ricavati nei sottoscala, sul tavolo di cucina o altri infiniti posti anonimi e modesti.
Quindi, anche se la mia casa è grande, ho un ingresso per l’abitazione e un altro che uso per ricevere i clienti, il posto in cui lavoro è una sola grande stanza attrezzata con i computer e arredata come si deve, ricevere un cliente è sempre un terno al lotto.
Ho la targhetta fuori dalla porta, la macchinetta per il caffè - che ho servito all’editore e la segretaria in tazzine Illy decorate da Nam June Paik -, ho fatto venire mia nipote e l’ho sistemata davanti a un computer a cazzeggiare, ho offerto acqua minerale Evian e Sanpellegrino in bottiglietta, ho fornito ottime referenze e esibito un book invidiabile, se non altro in virtù di una carriera di quasi trent’anni.
Ma non so se tutto questo è bastato a convincere il francese, che si è dimostrato - almeno questa è stata la mia impressione - favorevolmente impressionato dal nostro lavoro ma che, secondo me, era molto ma molto combattuto sulla solidità e affidabilità della mia struttura.
D’accordo, non è colpa mia se quel pelato al secondo piano ha scelto di schiattare proprio il giorno del mio grande appuntamento con conseguente decorazione a lutto del portone, però, cazzo! Poteva anche aspettare ancora un giorno, uno solo.
Ma forse non è andata così male; non tutto è ancora perduto. Entro domani devo presentare ancora un paio di proposte, fare degli aggiustamenti. Penso sia una cosa buona, altrimenti l’editore avrebbe detto: Grazie, tanti saluti, le farò sapere. Invece, mentre guardava le stampate della mia proposta, mi è parso di avergli sentito dire un: “Chapeau”, che il dizionario online Hoepli definisce così: “Si usa come espressione cavalleresca di ammirata approvazione per un gesto, una prestazione sportiva, e simili”.
Quindi, se non è diventato un nuovo modo di prendere per il culo qualcuno, forse, non è ancora tutto perduto.
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