Che cos’è la violenza?

Da Maddalena_pr

LA VIOLENZA È ISTINTO, È L’ANIMALE CHE SIAMO, È LA SPONTANEITÀ CHE IN FONDO, DALLA PARTE OPPOSTA, CI EDUCHIAMO SPESSO A MANTENERE COI FIGLI: QUEL MODO LEGGERO DI ABBANDONARCI, GIOCARE, FARE ACROBAZIE LASCIANDO A TERRA LA ZAVORRA DELLE CONVENZIONI. FATA, DA UN LATO, STREGA, DALL’ALTRO.

Se ti domandassi cosa pensi della violenza sui bambini. Se chiedessi a te che leggi, adesso, sul tuo smartphone mentre tuo figlio è a scuola, mentre è al tuo fianco e gioca. Mentre mangia, sorride, corre.
Risponderesti che la violenza è inaccettabile. Un retaggio, quasi, di altre epoche: epoche in cui si bacchettava a scuola, in cui i padri erano burberi, le madri facevano figli a dozzine, la pedagogia non aveva ancora fatto propaganda di quell’attenzione all’animo e alle necessità del piccolo che ora brandisce senza apparenti equivoci.

Quando Patrick aveva un anno, forse meno, forse poco più, mi scappò una sberla. Piccola, ma che su quella manina era una percossa che gli ricopriva tutto quanto il dorso. Il motivo se l’è sciacquato via il tempo, il suo filtro obbediente a criteri sconosciuti. Il gesto, invece, ristagna nella memoria come l’odore di fumo.

Gli ho urlato dietro, ho piantato quella mano sulla sua cercando di frenare la rincorsa che mi veniva da dentro, mi saliva su, a galla, come un rigetto. Ma la rapidità dell’azione supera l’inerzia del pensiero. Il veto che da sempre ci siamo imposti, di non alzare, mai, le mani sui figli.

Sembra la mano di un’altra, una che mi somiglia, che quasi mi corrisponde di più, perché la violenza è istinto, è l’animale che siamo, è la spontaneità che in fondo, dalla parte opposta, ci educhiamo spesso a mantenere con loro: quel modo leggero di abbandonarci, giocare, fare acrobazie lasciando a terra la zavorra delle convenzioni. Fata, da un lato, strega, dall’altro.

Strega io, mi sfiguro in un gesto: Patrick non accusa nulla, piange ancora, piange, come già stava piangendo, con eguali lacrime, lo stesso piccolo cuore che gli torna su. Che va tutto dentro a quella mano sotto la mia. Ed è come rompere un vetro: che cosa ho fatto? Non per la gravità del singolo atto, ma perché ho infranto un veto. Ho lo spavento addosso, il gong cupo nel torace, una sassata gelida che mi rapprende. Perché ho paura. Paura di me. Di ripetere quel gesto in futuro.

Invece non accadde più. Per fortuna non l’ho mai più fatto.
Ma cosa definisce una violenza?

Se ti chiedessi adesso, mentre tuo figlio urla e si dibatte per un’inezia. Mentre riordini tutto il casino che ha fatto, lo rincorri per casa, per strada, insegui una disobbedienza che s’impunta come un chiodo in mezzo a un passo. E pensi non ho potere. Hai provato a convincerlo, hai negoziato, sei scesa a compromessi. Hai cercato di comprarlo. Poi hai alzato la voce, imbracciato la minaccia, l’hai visto fermarsi per un attimo, ti sei detta funziona!… Ti sei vista pronunciare frasi taglienti. È solo carta, non è percossa: una frase è solo un segno sottile.
Cosa risponderesti?

Ho detto: “Sono stufa di te.”
“Che palle che sei!”
“Non ti sopporto. Non vedo l’ora che esci.”
“Mi hai rotto i coglioni!”

Ho detto questa e altre cose, nel corso degli anni. Sputate fuori come valanghe.
Sono riuscita a non alzare, mai più, le mani. È solo verbo, soltanto parole, in braccio a un tono acuto, allo sbuffo di una locomotiva.
È solo carta, tagli sottili e superficiali.

Il punto è che, forse, su quella carta, qualcosa si scrive. Qualcosa che resta.