Della materia che occupa la vasta distesa tra i sistemi di stelle all’interno di una galassia sappiamo ancora pochissimo, ma grazie allo studio appena presentato da un gruppo internazionale di scienziati, tra cui spicca la partecipazione della Johns Hopkins University, potremmo essere a un passo dalla soluzione di quel puzzle noto come ‘polvere di stelle’ che da quasi un secolo ancora resta un mistero.
I ricercatori sono convinti che il loro lavoro dimostri, nei fatti, un nuovo modo di ottenere localizzazione e composizione della materia che si nasconde fra le stelle della Via Lattea. Un insieme di materiali che comprende polveri e gas composti da atomi e molecole, residui di stelle che hanno concluso il loro ciclo vitale. Materiale che certo costituisce la base per nuove stelle e pianeti.
Da Wikipedia:
In astronomia, il mezzo interstellare (abbreviato in ISM, dall’inglese InterStellar Medium) è il materiale rarefatto costituito da gas e polvere che si trova tra le stelle all’interno di una galassia. Il mezzo interstellare galattico è colmato da energia sotto forma di radiazione elettromagnetica e si mescola gradatamente al mezzo intergalattico circostante.
Fino alla fine del XIX secolo, lo spazio interstellare era considerato sostanzialmente vuoto. Nel 1904, l’astronomo tedesco Johannes Hartmann scoprì il gas interstellare, mentre ventisei anni dopo, nel 1930, lo svizzero Robert Trumpler scoprì la polvere interstellare, che causava l’arrossamento del colore delle stelle lontane.
“Si dice che, in fondo, siamo tutti polvere di stelle, dal momento che tutti gli elementi chimici più pesanti dell’elio sono prodotti nelle stelle”, spiega Rosemary Wyse, docente di fisica e astronomia alla Johns Hopkins e prima autrice della ricerca che ha permesso di disegnare la nuova mappa della Galassia.
“Ma quel che non sappiamo ancora è perché le stelle preferiscano alcuni luoghi dello spazio per il loro processo di formazione. Questo lavoro ci fornisce nuovi elementi per comprendere il mezzo interstellare da cui si formano gli astri che punteggiano l’Universo”.
In particolare lo studio si concentra su un particolare fenomeno di assorbimento della luce stellare, conosciuto come diffuse interstellar band (DIBS). Noto dagli anni Venti del secolo scorso, consiste nella mancanza di alcune linee nello spettro luminoso di stelle, che, per la loro posizione rispetto a noi, si trovano ‘nascoste’ dietro un mezzo interstellare che per proprietà chimiche ne assorbe parte della luce.
Dal 1922, anno della prima scoperta, gli scienziati hanno riscontrato oltre 400 fenomeni di DIBS. La materia che causa le bande nere nello spettro luminoso, come d’altra parte la sua precisa ubicazione, è però rimasta un mistero.
Il tipo di assorbimento che si registra indica presenza di grandi molecole complesse. Ma non esistono evidenze scientifiche. Inutile dire che fisica e chimica di queste regioni sono elementi chiave per comprendere i processi di formazione di stelle e galassie.
Indizi più concreti ora possono essere dedotti dalle mappe appena pubblicate su Science, e prodotte dai 23 scienziati che hanno partecipato allo studio. Le mappe sono state assemblate grazie ai dati raccolti dal Radial Velocity Experiment – un progetto che coinvolge oltre 20 istituti sparsi per il mondo e coordinato dal Leibniz-Institut für Astrophysik di Potsdam – in 10 anni di attività, utilizzando lo UK Schmidt Telescope in Australia.
Dati per 500.000 stelle: un campione significativo che ha permesso ai cartografi di determinare la distanza cui si trova il materiale che provoca i DIBS e di conseguenza come il mezzo interstellare si distribuisca in tutta la Via Lattea.
Ma dalle mappe si vede anche di più. Le molecole complesse ritenute responsabili del fenomeno dei DIBS sono infatti distribuite in modo diverso rispetto ad altri componenti conosciuti del mezzo interstellare (le particelle solide che solitamente chiamiamo polveri).
“Per capire qualcosa di più sul mezzo interstellare, dobbiamo anzitutto avere un’idea chiara di come sia distribuito all’interno della nostra galassia”, conclude Wyse. “E questo è quanto ha prodotto il nostro lavoro. In futuro potremo raccogliere maggiori dettagli, ora abbiamo un metodo che funziona”.