Undici autrici italiane e undici illustratrici della scena creativa internazionale, una rivista culturale online, Flanerí e uno studio editoriale, 42Linee, diverse risposte narrative a un solo quesito. Sono questi i numeri di effe #3, che per la prima volta ha deciso di lanciare un appello nazionale – AAA Autrici Cercansi –, tentando così di rispondere a una precisa domanda: «Se raccogliessimo le storie e le intuizioni delle donne che scrivono oggi e in Italia, che cosa leggeremmo?».
A inviare le loro storie sono state in molte e alcune hanno trovato spazio nel volume effe #3, appena pubblicato e disponibile in alcune librerie. La lista è su http://www.42linee.it/effe_3/nella sezione dedicata a ciascun numero dove si può anche comprare la copia online.
Qual è stata la risposta? Alcune delle donne che scrivono oggi e in Italia, vanno forte, anzi fortissimo. Le tematiche, gli intrecci, i personaggi e gli stili che le autrici prediligono sono così disparati da non permettere la loro collocazione in nessun genere, di fronte a quest’impossibilità diremmo che l’unico comun denominatore, il loro genere sessuale, non implica alcun raggruppamento possibile ma anzi ci dimostra che l’individualità narrativa molto spesso scavalca le etichette con cui siamo soliti ordinare la scrittura e i suoi artefici.
Ad aprire e chiudere il volume Carla Vasio, autrice e poetessa, ex esponente del Gruppo 63, con un editoriale dedicato al tema dell’autoproduzione e della sperimentazione e con un racconto recuperato da I Have a Dream Today, volume indipendente datato 1979 e anticipazione della sua raccolta Piccoli impedimenti alla felicità che uscirà a luglio per la casa editrice Nottetempo.
Per gentile concessione della redazione di effe – Periodico di Altre Narratività pubblichiamo un estratto del racconto di Alessandra Minervini Cosa c’è di nuovo, Gina? (illustrazione di il Pristice).
«A Torino l’azienda mi aveva assunto a tempo indeterminato. Era un centro di ricerca che produceva software di ingegneria aerospaziale. Anche io mi sono meravigliato, non pensavo esistesse un’azienda fatta su misura per i miei studi. Poi, quando ho scoperto che c’erano gli americani di mezzo, mi sono tranquillizzato. Non era altro che il mio sogno americano di provincia che si avverava.
L’ufficio era distante da casa mia ben otto chilometri. A Torino hanno una concezione dello spazio postindustriale: tutto si può raggiungere facilmente, basta avere una macchina. Io ho una concezione dello spazio emiliana, e cioè accentratrice. Nel mio paese entro in macchina, accendo una sigaretta e dovunque vada non c’è verso che riesca a finire di fumare prima di essere arrivato a destinazione.
Mi svegliavo alle sei meno un quarto per stare in ufficio alle otto. Lavoravo da solo in una stanza bianca con le porte a vetri e le veneziane, come in America. Solo che le veneziane erano rotte e nessuno si prendeva la briga di aggiustarle. Proprio come in Italia. Uscivo dall’ufficio alle otto e mezza e arrivavo a casa, più o meno vivo, alle nove e mezza di sera. Dopodiché potevo scegliere se uscire o schiantarmi davanti al frigo. In fondo lì dentro c’era tutto quello che avrei trovato fuori, a parte il culatello che a Torino non lo gradiscono mica tanto.
Poi un giorno andai al lavoro e il lavoro non c’era più. Tutti in città avevano scioperato ed era meraviglioso. Tutto quello di cui pensavi di non poter fare a meno, non c’era più. I giornali, il caffè, gli autobus, i taxi, le sigarette. Pensai, e chi mi avrebbe dato torto, che pure l’azienda dove lavoravo fosse in sciopero. Invece no. Era proprio chiusa, sigillata dalla Guardia di Finanza. Ero stato assunto da un fantasma, che detta così mi sembrava meglio di un fumetto. L’azienda era un fantasma di madre americana e di padre ignoto. Non producevo sistemi di comunicazione, ma software bellici: kamikaze tecnologici che servivano a craccare i sistemi informatici degli altri Stati. Una roba fighissima, se non mi fosse costata il posto di lavoro. Il guaio infatti era che la mia azienda era pure una schiappa. Dall’America avevano mandato dei supervisori che, quando hanno visto il risultato del lavoro, devono aver fatto un rutto e una pernacchia, o due rutti e tre pernacchie, comunque di seguito, che si chiudevano in un boato. E poi li hanno denunciati ai finanzieri. Anonimamente. Hanno fatto la spia a un’azienda produttrice di spie per evitare che il malfunzionamento di qualche software destasse sospetti. Gli americani non hanno tempo da perdere. Non prendono il caffè al bar, non festeggiano con i pasticcini l’onomastico, non ascoltano Coltrane mentre fanno l’amore. Gli americani hanno più soldi che idee. Non si scherza con gente così».
Alessandra Minervini è nata a Bari nel 1978. Attualmente lavora come consulente editoriale e tiene corsi di scrittura.