ATLETI DELLA DUE RUOTE, alimentata da polpacci e polmoni, che esprimendo la loro massimo potenzialità su queste nostre montagne, riescono a regalare attimi di inestimabile suggestione, portando se stessi, gli spettatori e tutti i presenti, a dialogare apertamente ed elegantemente con l'ambiente circostante. Appennini, Alpi o Dolomiti che siano poco importa, il livello del tifo è sempre e comunque altissimo, è sempre e comunque una lieve carezza su corridori dagli occhi colmi di fatica. Una mano tesa che serve a rassicurarli e a spingerli fin dove sarebbe impossibile giungere con le sole proprio forze. Il Giro d'Italia è questo: fatica e sudore dei corridori che sono direttamente proporzionali all'affetto e alla devozione del pubblico per le loro gesta.
UN CORRIDORE CHE PASSA PIU' DI 7 ORE IN BICI, affrontando più di 50 km in salita su un totale di 230mila metri, superando le vette poste a 2200 metri ed avvalando le ripide discese per tornare a valle e riprendere quindi a salire, è egregiamente supportato da un pubblico che attende per ore ed ore, se non giorni, il suo passaggio. Un passaggio rapido e sfuggente ma che sembra durare una vita per tutte le sensazioni che ne scaturiscono da una parte e dell'altra. Il corridore affronta il sole, la calura che si alza dall'asfalto, arrivando a correre su temperature che scavalcano la soglia dei 30° gradi. E sempre nella stessa giornata può passare, in pochi minuti, da queste elevate temperature ai 4-5° gradi che sono di casa su di una cima alpina. Si passa dal calore soffocante, dall'afa che rende prigionieri, alla pioggia che si trasforma poco a poco in nevischio. Una sorta di conversione dallo stato liquido a quello solido che gela le gambe e le braccia dei ciclisti, i quali, però, non possono fermarsi, tergiversare e ripartire. Ma devono coprirsi come meglio possono, ricorrendo anche a stratagemmi come il foglio di giornale sullo stomaco.
SE SI HANNO QUESTE IMMAGINI IN TESTA, se si prova solo un attimo a vestire i loro umidi abiti, vengono i brividi solo al pensarci prima ancora di indossare un paio di calzo ed inforcare la propria bici dopo averla "lustrata come un nobile cavallo" come scrisse l'indimenticato Dino Buzzati quando seguì il Giro del 1949 come corrispondente del Corriere della Sera.
Il calciatore tanto osannato, omaggiato ed ammirato (che si getta a terra per un lieve spostamento d'aria in genere una decina di volte a partita) diviene una barzelletta a confronto di questi atleti. Ciclisti sono cumuli di carne risicata all'osso, senza un filo di grasso, che sfidano le intemperie facendoci capire cosa vuol dire essere degli sportivi. E facendoci capire perchè noi possiamo star lì solo a guardarli ed incitarli, condividendo pioggia e freddo con loro per dar l'illusione a noi stessi di poter loro alleviare le pene sportive. Non comprando un biglietto in platea, non comprando le loro maglie, non collezionando le loro figurine. Stando lì al capolinea, aspettandoli, dando loro una pacca sulla spalla e un urlo di incoraggiamento. Il ciclista non ci chiede nulla più ma se solo alzasse un dito saremmo lì pronti a portarlo in braccio, come fosse la nostra star assoluta nel bel mezzo di un concerto.
GIA' IL GIRO E' PROPRIO UN CONCERTO di colori, suoni, espressioni, dolori e gioie. Anche per il tifoso che nell'attendere, intravedere, lasciare andare con gli occhi il corridore verso il traguardo, per una manciata di minuti, si sottopone ai rischi meteorologici del caso. Il fotogramma delle migliaia di persone che assieme, tenendosi per mano o sorridendo l'un l'altro, scendevano dalla cima dello Zoncolan, sotto un diluvio universale da non poter veder due metri più in là..rimarrà uno dei ricordi migliori che mi conseverò con cura.