Che strano chiamarsi Federico! – Il racconto dell’amico Scola

Creato il 21 settembre 2013 da Irene_snapi @irene_snapi

Oggi vorrei parlare di questo nuovo film del maestro Ettore Scola. In verità non avevo pensato di parlarne e di recensirlo, ma dando un’occhiata qua e là in internet ho notato che ci sono ancora poche recensioni e siccome credo che il film meriti davvero molto la visione, per quanto distribuito non molte sale, vi consiglio di andarvelo a cercare motivo in più se siete degli affezionati felliniani, è un’ottima chicca.

Inizia con un verso di Federico Garcìa Lorca che gli dà anche il titolo il bio-documentario, fuori concorso alla 70° Mostra del cinema di Venezia, di Ettore Scola su Federico Fellini. Scritto in collaborazione con le figlie Paola e Silvia Scola e con il nipote Tommaso Lazotti (nel film anche attore), Scola qui non si limita a raccontare la vita del grande regista scomparso nel 1993 (il film è una produzione dell’Istituto Luce per celebrare infatti il ventennale della morte), ma la arricchisce di particolari, di dettagli che solo lui poteva ricordare, dato che conosceva Fellini dal dopoguerra, quando entrambi erano poco più che ventenni e collaboravano alla rivista satirica il Marc’Aurelio, a Roma.

Due storie simili in tutto e per tutto, quelle dei due grandi registi, tanto che si intersecano ripetutamente, dalla carta stampata alla sceneggiatura e, poi, al cinema, verso quello d’autore, e non aveva senso raccontare una storia senza l’altra, Scola non è stato autocelebrativo, non fa ombra a Fellini nel film: lo spalleggia, traspare netta la sua stima per l’uomo e per l’artista del quale probabilmente da giovane vedeva le orme e vi si innestava sopra, seguendole.

Vari i richiami ai film del regista romagnolo, alcuni espliciti, con vari inserti (di più nella parte finale), altri più fini, che fanno riferimento diretto all’immaginario del regista: i giocolieri, le donne, i tanti personaggi di cui Scola ha deciso di costellare il film, come il Narratore (Vittorio Viviani), uscito pari pari da Amarcord, del quale si rivendica l’autorità in una gag d’umorismo quasi d’avanspettacolo (“No, il Narratore non paga!”), o la prostituta (Antonella Attili), che sembra proprio la stessa di una delle prime sequenze de La Dolce Vita.

Il set stesso è qualcosa di profondamente felliniano, è il Teatro 5 di Cinecittà, “casa” di Fellini, dove ha girato tutti i suoi film o quasi, e dove è stata allestita la camera ardente prima dei funerali e dove è palesemente allestito anche il commovente finale; un set che si mostra teatralmente più volte durante il film, in un omaggio al cinema stesso oltre che a uno dei suoi grandissimi rappresentanti.

Il film si può dividere in due parti: la ricostruzione del periodo al Marc’Aurelio, che vede protagonisti entrambi i nipoti di Ettore Scola, non professionisti ma che se la cavano decisamente bene, rispettivamente Tommaso e Giacomo Lazotti nei ruoli di Federico Fellini e Scola stesso, una ricostruzione votata all’umorismo con aneddoti divertenti, quasi completamente in fotografia b/n. La seconda parte invece, oltre a pescare qua e là immagini di repertorio vede l’apparizione, tra i tanti, di Sergio Rubini, nel ruolo di un “Madonnaro”, un artista di strada, tipo umano cui Fellini era molto affezionato per sua stessa ammissione.

Un film che nelle atmosfere certamente fa respirare molto bene il clima allegro e malinconico dei film di Fellini e in generale degli anni 40 e 50, quelli dell’avanspettacolo, per cui chapeau al maestro Scola che ci ha regalato per un’altra ora e mezzo la possibilità di poter rivivere la magia circense dell’immaginario di Federico Fellini.


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