Einaudi Editore Euro 15,50
È la prima volta che nei risvolti di copertina di un libro trovo parole così precise e oneste per dare un’idea di ciò che il lettore troverà nel romanzo che sta per acquistare o ha già acquistato.
Tanto precise e oneste che ho deciso di riportarle pari pari ringraziando chi mi ha tolto la fatica di scrivere un breve sunto del romanzo che ho appena finito di leggere.
“In una bella notte di luglio del 1962, davanti alla lunga e romantica distesa di ciottoli di Chesil Beach, ha inizio la luna di miele di Florence Ponting e Edward Mayhew, ricca e promettente violinista lei, modesto e promettente storico lui, entrambi nuovi alle vie dell’amore. I due giovani si amano molto e, nel trepidante preludio alla prima notte di nozze, molto se lo ripetono, ma il loro discorso amoroso non va oltre.
Mancano a Florence le parole per dire la vergogna e il disgusto che prova ai pensiero pur vago di quanto l’attende sotto le coperte ben tese del letto d’albergo, proprio mentre si sforza di non deludere le aspettative del marito; e mancano a Edward le parole per dire l’ansia di non riuscire a contenere l’impazienza e la paura di non saper interpretare i segnali di un corpo sconosciuto e misterioso quanto un’altra galassia.
Poco tempo ancora e il vento della liberazione culturale avrebbe soffiato anche su quell’angolo d’Inghilterra, sciogliendo, forse, i loro due destini insieme a quelli delle generazioni a venire. Poco tempo, un anno appena, secondo il poeta Philip Larkin, prima di quell’«annus mirabilis» della rivoluzione sessuale – il 1963 appunto, «tra la fine del bando a Lady Chatterley e il primo ellepì dei Beatles » – quando, sdoganati gli scambi fisici e verbali fra i sessi, il litigio si sarebbe tramutato in accordo e la vergogna in gioco.
Ma sulla soglia scomoda di quell’evento sismico, è all’insegna della contesa inibita, davanti a un pasto sgradito che le convenienze impediscono di rifiutare, che Florence e Edward conducono in silenzio il loro delicatissimo negoziato.
Occorrerebbe una parola, un solo gesto, per distendere il groviglio e ricordare ai due sposi perché sono lì. Occorrerebbe una parola per impedire alla frustrazione di tramutarsi in fallimento, il fallimento in rabbia, la rabbia in amarezza, rinnovata all’infinito come la risacca sui ciottoli di Chesil Beach.”
Chesil Beach più che un romanzo, anche se del romanzo presenta tutta la struttura logica e funzionale, è un racconto lungo di 136 pagine che si può leggere in un paio d’ore. Scritto e stampato nel 2007 mi è capitato fra le mani solo oggi e ve ne parlo con piacere perché la storia e il suo dipanarsi meritano attenzione.
Banalmente Chesil Beach potrebbe sembrare la narrazione del divorzio più veloce della storia: appena nove ore dopo la cerimonia in Chiesa e con ancora i piatti del pranzo nuziale sul tavolo, il matrimonio tra due persone che si amano implode fragorosamente. Eppure se Florence e Edward non fossero state vittime predestinate dello sfondo sociale ante rivoluzione sessuale che aveva impedito loro di parlarsi a cuore aperto dei reciproci desideri più intimi, sicuramente le aspettative che entrambi riponevano nel rapporto d’amore culminato nel matrimonio, non sarebbero crollate cinque minuti dopo essere entrati in camera da letto. Se avessero potuto parlarsi senza i lacci e laccioli imposti dall’ipocrisia imperante nella società britannica del 1962, pur amandosi, i due non si sarebbero sposati o, meglio, avrebbero potuto decidere di farlo sapendo bene a cosa andavano incontro. Edward e Florence si amavano davvero e se avessero saputo cogliere sull’immensa distesa di ciottoli di Chesil Beach, immersa nell’oscurità della notte, il senso vero degli avvenimenti accaduti pochi istanti prima sul letto matrimoniale, se avessero saputo affrontare razionalmente la sproporzionata burrasca dei risentimenti e delle reciproche frustrazioni e avessero avuto la “pazienza” di ascoltare il loro cuore, quell’improvvida crisi l’avrebbero superata o, almeno, avrebbero potuto controllarla e indirizzarla diversamente.
Per quanto concerne la scrittura, l’uso accurato del lessico e l’introspezione psicologica della mente dei personaggi mi portano a dire che Ian McEwan sia un autore moderno che non disdegna la grande letteratura dell’ottocento.
Concordo con ciò che ha scritto Irene Bignardi:
“È vero che Flaubert è riuscito a entrare nei panni di Madame Bovary tanto da poter dire "Madame Bovary c’est moi". È vero che gli scrittori, da Omero in poi, hanno parlato di esperienze altrui, in quella strana forma di metempsicosi che permette la scrittura, e che il loro mestiere è proprio ricreare con le parole i mondi virtuali in cui non sono vissuti. Ma resta curioso il fatto che un autore, Ian McEwan, si tuffi con tanto agio e un effetto di rievocazione e di ricostruzione così sconvolgente nell’esperienza intimissima di una cultura sentimentale e sessuale che non ha vissuto. O almeno così ci auguriamo per lui. Perché Ian McEwan è nato nel 1948, e ha avuto quindi la fortuna di avere vent’anni proprio in quel fatidico ’68 che ha cambiato se non tutto molte cose. E che certo ha cambiato molto delle cose che Ian McEwan racconta in Chesil Beach.”
Concludo dicendo che il libro mi è piaciuto e lo consiglio a tutti. Non so se riuscirete a trovarlo ancora in vendita nelle librerie, io l’ho scovato nella biblioteca comunale a due passi da casa mia.
Nicola