Ripubblicato recentemente dalla Newton Compton, dopo esser uscito quattro anni fa per Mondadori col titolo In viaggio verso me, un piccolo teaser tratto dalle pagine di questo libro che mi sta facendo compagnia nel primo giorno di ripresa dei corsi. Ho un debole per i viaggi on-the-road e ne sto programmando un paio da anni in attesa di poterli realizzare: nel frattempo, mi godo quelli letterari.
Come sta procedendo il vostro rientro nella routine dopo l’abbuffata pasquale?
Titolo originale: Amy & Roger’s epic detour
Autrice: Morgan Matson
Editore: Newton Compton
Pagine: 352
In uscita il 2 aprile 2015
Amy Curry pensa che la sua vita sia uno schifo. Suo padre è recentemente scomparso in un incidente d’auto e sua madre ha deciso di trasferirsi dalla California al Connecticut, proprio nel suo ultimo anno di scuola. Per fuggire da tutto Amy si imbarca in un viaggio on the road, allontanandosi da casa per andare incontro a una nuova vita. Ad accompagnarla sarà Roger, figlio di un vecchio amico della madre, che Amy non vede da anni. La ragazza non è proprio entusiasta all’idea di attraversare il Paese con qualcuno che conosce a malapena ed è per questo che è tanto più sorpresa quando si rende conto che si sta innamorando di lui. Durante il viaggio Amy cercherà di venire a patti con il dolore per la morte del padre e di rimettere insieme i pezzi della sua vita. Con l’aiuto di un nuovo amore…
Non avrei mai pensato di vedere un cartello immobiliare sul prato di casa nostra. Fino a tre mesi prima, la mia vita era stabile, persino un po’ noiosa.
Vivevamo a Raven Rock, un sobborgo di Los Angeles: i miei genitori insegnavano entrambi al College of the West, una piccola scuola a circa dieci minuti di auto da casa. Era abbastanza vicina per fare comodamente i pendolari, ma lontana a sufficienza da non sorbirsi il frastuono delle confraternite in festa il sabato sera. Mio padre insegnava storia (La Guerra Civile e La Ricostruzione), mia madre letteratura inglese (Modernismo).
Charlie, il mio fratello gemello più piccolo di me di tre minuti, aveva ottenuto il massimo dei voti in comprensione critica del testo all’esame del PSAT ed era sfuggito per un pelo a un’incriminazione per possesso di droga. Era riuscito a convincere il poliziotto che l’aveva beccato che l’oncia di marijuana nel suo zaino era, in realtà, una rarissima miscela di erbe della California nota come Humboldt, e lui si era prontamente spacciato per tirocinante della scuola di cucina di Pasadena.
Io aveva appena cominciato a ottenere dei ruoli da protagonista negli spettacoli teatrali al liceo e avevo pomiciato tre volte con Michael Young, matricola al college, ancora indeciso sulla facoltà da prendere. Le cose non erano certo perfette: la mia migliore amica, Julia Andersen, a gennaio si era trasferita in Florida; ma con il senno di poi capii che la mia vita non andava affatto male. All’epoca, però, non me ne rendevo conto. Ero sempre stata convinta che tutto sarebbe rimasto più o meno uguale.
Guardai la Subaru sconosciuta e gli estranei al suo interno: erano ancora immersi nella conversazione e pensai, come innumerevoli altre volte, a quanto ero stata idiota. E c’era una parte di me – una parte che spuntava fuori soltanto a notte fonda, quando finalmente stavo per addormentarmi – che si chiedeva se, in un certo senso, non fossi io la causa di tutto, semplicemente per aver contato troppo sull’immutabilità delle cose. Oltre a tutto ciò di cui ero stata la diretta responsabile.
Mia madre decise di mettere in vendita la casa quasi subito dopo l’incidente. Io e Charlie non fummo interpellati, ma soltanto informati. A quel punto, comunque, non avrebbe fatto alcuna differenza consultare mio fratello. Dal giorno dell’accaduto, era quasi sempre fatto. Al funerale la gente gli aveva mormorato parole di comprensione, credendo che i suoi occhi iniettati di sangue fossero dovuti al pianto. A quanto pareva, quelle persone non avevano il senso dell’olfatto: chiunque gli fosse stato abbastanza vicino, avrebbe potuto sentire quell’odore, ovvero la ragione del suo stato. Charlie aveva cominciato a sballarsi più o meno regolarmente in seconda media, ma in quest’ultimo anno era diventata una vera e propria dipendenza. E dopo l’incidente, la situazione era peggiorata, molto peggiorata, tanto che il Charlie-non-fatto era diventato una sorta di figura mitologica di cui si conservava un vago ricordo, un po’ come lo yeti.
La soluzione a tutti i nostri problemi, aveva decretato mia madre, era trasferirci. «Un nuovo inizio», ci aveva annunciato una sera a cena. «Un posto senza tutti questi ricordi». Il giorno seguente piantarono il cartello dell’agenzia immobiliare in giardino.
Ci saremmo trasferiti in Connecticut, uno Stato che non avevo mai visitato e in cui non avrei mai desiderato trasferirmi.
O, come avrebbe preferito il signor Collins, uno Stato in cui non nutrivo alcun desiderio di trasferirmi. Mia nonna viveva lì, ma era sempre venuta lei a farci visita: be’, insomma, noi abitavamo nella California del Sud e lei in Connecticut. Ma a mia madre era stato offerto un posto al dipartimento di Inglese dello Stanwich College. E a quanto pareva, nelle vicinanze c’era un’ottima scuola superiore: ci sarebbe piaciuta molto, così sosteneva mia madre. Quelli del college l’avevano aiutata a trovare una casa in affitto, e non appena io e Charlie avessimo terminato il penultimo anno scolastico, ci saremmo trasferiti là, mentre l’agenzia immobiliare “BENVENUTI A CASA” si sarebbe occupata di vendere la nostra villetta in California (…) Gli sconosciuti della Subaru stavano ancora parlando, ma si erano sganciati le cinture di sicurezza e si guardavano in faccia. Osservai il nostro garage a due posti in cui era parcheggiata una sola automobile, l’unica che ancora possedevamo. Era quella di mia madre, una Jeep Liberty rossa. Ne aveva bisogno in Connecticut: stava diventando complicato continuare a prendere in prestito la decrepita Coupé deVille della nonna. A quanto pareva, la nonna ne aveva bisogno per andare a giocare a bridge: ultimamente si era persa un sacco di partire, e non le importava che a mia madre servisse l’auto per andare al supermercato. Una settimana prima, il giovedì sera precedente, mia mamma mi aveva illustrato la sua soluzione al problema dell’auto (…)
«Allora, senti», esordì lei, facendomi alzare la guardia. Era la solita premessa alle novità che non mi sarebbero piaciute. Oltretutto parlava troppo in fretta, un altro indizio che mi insospettì.
«Si tratta della macchina».
«La macchina?», chiesi, e nel frattempo misi la pizza sul piatto a raffreddare. Senza che me ne accorgessi, non era più un semplice piatto: era diventato il piatto. Praticamente usavo e lavavo sempre lo stesso piatto. Come se tutti gli altri fossero diventati superflui.
«Sì», rispose, soffocando un altro sbadiglio. «Ho dato un’occhiata a quanto costerebbe farla spedire, più il prezzo del tuo biglietto aereo, e be’…»
Fece una pausa. «Temo che adesso non sia proprio possibile. Considerato che la casa non è ancora stata venduta, e poi c’è anche la retta per l’istituto di tuo fratello…»
«Che significa?», indagai: non riuscivo a capire dove volesse arrivare.
Assaggiai la pizza.
«Non possiamo permettercelo», concluse. «E la macchina mi serve. Quindi qualcuno dovrà portarmela qui.»
La pizza era ancora troppo calda, ma ingoiai lo stesso il boccone: avevo la gola in fiamme e le lacrime agli occhi.
«Non posso guidare io», mormorai, quando fui di nuovo in grado di parlare.
Non avevo più guidato dall’incidente, e non sapevo se e quando avrei ricominciato. Al solo pensiero mi sentii soffocare, ma mi sforzai di parlare. «Lo sai. Non lo farò.»
«Oh, non dovrai guidare tu!». Mia madre parlava in tono troppo vivace considerato che un attimo prima sbadigliava. «Guiderà il figlio di Marilyn. Deve comunque venire sulla costa orientale per trascorrere l’estate con il padre a Philadelphia, quindi è tutto risolto (…) Conosci la mia amica Marilyn. I Sullivan vivevano a Holloway fino a prima de divorzio, poi lei si è trasferita a Pasadena. Tu e Roger giocavate sempre a quel gioco. Come si chiamava? Potato? Yam?»
«Spud», risposi automaticamente. «Chi è Roger?»
Mia madre fece uno dei suoi lunghi sospiri, per avvertirmi che stavo mettendo a dura prova la sua pazienza.
«Il figlio di Marilyn», rispose. «Roger Sullivan. Ti ricordi di lui». (…)
«Mi ricordo del gioco», replicai. Mi chiesi, come sempre, perché ogni conversazione con mia madre dovesse diventare così difficile. «Non ricordo nessuno di nome Roger. O Marilyn, se è per questo.»
«Bene», concluse, e dalla voce capii che si stava sforzando di sembrare ottimista. «Adesso avrei l’occasione di conoscerlo (…) Oh, a proposito», aggiunse, come se si fosse ricordata all’improvviso. «Com’è andato lo spettacolo?»
Comunque, al momento lo spettacolo aveva chiuso i battenti, gli esami erano finiti e in fondo al vialetto c’era una Subaru con dentro Roger, il giocatore di Spud. Nel corso della settimana precedente, mi ero sforzata di ripensare al passato, per vedere se mi ricordassi di un certo Roger. Mi era venuto in mente uno dei bambini del vicinato, con i capelli biondi e le orecchie a sventola che, con in mano un pallone da football color ruggine, chiamava me e Charlie per giocare insieme. Mio fratello avrebbe ricordato altri dettagli – nonostante le sue attività “extrascolastiche”, aveva la memoria di un elefante – ma sfortunatamente non era proprio a portata di mano per poterglielo chiedere.
Gli sportelli della Subaru si aprirono, e sbucò una donna che sembrava coetanea di mia madre: doveva essere Marilyn, seguita da un ragazzo alto e magro. Lui mi dava le spalle, mentre Marilyn apriva il portabagagli ed estraeva una sacca tipo militare e uno zaino. Appoggiò tutto per terra, poi i due si abbracciarono.
Il ragazzo, presumibilmente Roger, era più alto di lei di almeno due spanne e si dovette abbassare un po’ per stringerla a sua volta. Mi aspettavo di sentire uno scambio di saluti, ma lui si limitò a dire: «Fatti viva!». Marilyn rise, come se si aspettasse quella frase. Mentre si separavano, la donna incrociò il mio sguardo e sorrise. Ricambiai con un cenno del capo, e lei entrò nell’auto.
Fece inversione di marcia nella strada senza uscita e Roger rimase a fissarla, alzando una mano in segno di saluto.
Quando la macchina sparì dalla vista, lo sconosciuto si caricò le borse in spalla e si avviò verso casa. Non appena si voltò, battei le palpebre per lo stupore. Le orecchie a sventola non c’erano più. Il ragazzo che camminava verso di me era straordinariamente bello. Aveva spalle larghe, capelli castano chiaro, occhi scuri, e già mi sorrideva.
In quel preciso istante capii che il viaggio era diventato d’un tratto molto più complicato.