Chi di teaser ferisce

Creato il 13 maggio 2015 da Ceenderella @iltempodivivere

Avete presente quando vi capita tra le mani un libro e non riuscite a staccare gli occhi dalle pagine da quanto vi appassiona, a tal punto che bruciate i toast e la vostra cena e già sono quasi le dieci di sera? Ecco, questo mi è successo ieri sera. Ma, vi giuro, ne vale la pena. Ho come l’impressione che questo libro sarà per me quello che è stato l’estate scorsa L’estate dei segreti perduti della Lockhart, e solo per questo potrei amarlo un po’ di più.
Buona giornata, amici belli <3"><3"><3

Titolo: Nemmeno in Paradiso
Titolo originale: Even in Paradise
Autrice: Chelsey Philpot
Traduttrice: Alice Cominotti
Editore: DeAgostini
Pagine: 352
In uscita il 5 maggio 2015

Charlotte Ryder sa già tutto sul conto di Julia Buchanan prima ancora di conoscerla. Prima ancora di doverla ospitare una notte in camera sua, nel dormitorio del St. Anne College. I Buchanan sono il tipo di famiglia che non passa inosservata. Persino la preside Mulcaster è solita interrompere a metà un discorso per guardarli scendere, uno dopo l’altro, dalla loro lussuosa macchina nera. Per i Buchanan frequentare il St. Anne è come vivere in un acquario: tutti sanno tutto di loro. O almeno così crede Charlotte. Quello che non si aspetta, però, arrivando al St. Anne dal lontano New Hampshire, è di poter diventare la migliore amica di Julia Buchanan. Di essere inghiottita nel suo mondo abbagliante, fatto di feste ininterrotte, fiumi di champagne, appuntamenti notturni e incontri segreti. Un mondo in cui all’improvviso anche l’amore sembra a portata di mano. Perché quando Charlotte incontra Sebastian, il fratello di Julia, crede finalmente di avere tutto ciò che ha sempre desiderato. Presto però l’idillio si spezza. E davanti agli occhi di Charlotte si spalanca una tragedia. Un terribile segreto annidato dietro lo sfarzo che illumina le esistenze dei magnifici Buchanan…

LA FORZA DI ATTRAZIONE dei Buchanan era innata e potente come quella che la luna esercita sulle maree, e insieme a loro, nel calore della loro luce riflessa, ero felice.
Se si rendevano conto del fascino collettivo che emanavano, non lo davano a vedere. Erano tutti così naturalmente sicuri di sé, che non dubitai mai quella perfezione fosse determinata da forze che io non potevo comprendere. Erano nobili. Erano dèi. Erano profondamente infelici.
Non so chi amassi di più. Non avrei saputo dirlo allora e non saprei dirlo oggi, né mai. So soltanto che amavo lei, e lui, e tutti loro con un’intensità che non credevo possibile. La gente dice che niente è come il primo amore, ma non ha molto da dire sul fatto di amare contemporaneamente due persone, o una famiglia intera.
Lei era fragile e piena di vita come una flûte di champagne in bilico sul bordo di un tavolo. Lui era abbastanza forte per essere l’uomo che era destinato a essere, ma forse non quello che avrebbe scelto di diventare. Quanto agli altri, continuano ancora a stupirmi.
Anche se adesso so che la grazia, il potere e ovviamente l’amore possono nascondere i lati più oscuri del cuore umano, rifarei tutto da capo. A cominciare dalla notte in cui conobbi lei, e poi lui, e poi gli altri. Rifarei tutto da capo solo per sapere che anch’io, per un attimo, sono stata una di loro. Una dei Grandi Buchanan.

STAVO PER ADDORMENTARMI, quando sentii qualcuno che vomitava tra i cespugli fuori dalla mia stanza. Prima di quel suono inconfondibile – un insieme di conati e colpi di tosse – dalla finestra aperta erano entrati soltanto l’abbaiare intermittente di un cane e lo sporadico rumore di passi sul vialetto di cemento che attraversava il cortile del St. Anne.
Guardai verso il letto di Rosalie, che però russava piano, ignara di tutto. Nei tre anni in cui avevamo condiviso la stanza, si era abituata a continuare a dormire in qualsiasi circostanza, o quasi. Serrai forte le palpebre e desiderai che fosse tutto un sogno.
«Julia, stai bene? Ehi, Jules, che fai?» La voce di una ragazza che non conoscevo sembrava salire proprio da sotto il davanzale.
Ci fu un altro conato violento, e mi bruciò la gola solo a sentirlo, poi un gemito basso. Buttai da un lato le coperte, aspettando, sperando che le due ragazze si allontanassero fra i cespugli. Invece ne arrivò una terza.
«Jules, devi alzarti. Non possiamo restare qui.» Parlava come se qualcuno le stesse tappando il naso con due dita. «Questo non è il posto adatto per vomitare. La Mulcaster potrebbe uscire da un momento all’altro.»
L’unica risposta che ottenne fu un altro gemito basso, seguito dal rumore di chi si schiarisce la gola e sputa per terra qualsiasi cosa le risalga in bocca. Mi misi a sedere, tesa, nel buio della stanza, sfregandomi gli occhi e cercando sul pavimento la bottiglia d’acqua che avevo comprato quel pomeriggio, nel negozio del campus.
«Avanti» sibilò la ragazza con la voce nasale. «Dobbiamo rientrare prima che la sorvegliante si accorga. Abbiamo lasciato la porta socchiusa.»
Qualcosa di simile a un sacco di panni sporchi si abbatté contro il muro di mattoni e finì a terra con un tonfo sordo.
«Maledizione, Piper, lasciatemi in pace» gracchiò una nuova voce, roca e quasi sensuale. Una voce che conoscevo ma che non riuscivo a identificare esattamente. «Datemi cinque minuti per godermi di nuovo il gin!» Tirò su col naso, ridacchiò e poi riprese a vomitare.
«Jules…» La seconda ragazza si interruppe quando da dietro l’angolo risuonò la voce della preside.
«Hooper, vieni qui, bello. Hooper!»
«Merda. Jules, dobbiamo muoverci» disse la prima ragazza, l’accento inglese ora un po’ più marcato.
Rinunciai all’acqua e mi concentrai per cercare a tentoni le pantofole nel fondo dell’armadio.
«Jules, andiamo!»
Sentii il rumore di unghie che grattavano il muro.
«Lasciatemi in pace» rispose la ragazza, e subito dopo qualcosa si accasciò tra i cespugli, spezzando dei rami prima di toccare il suolo.
Buttai le pantofole sul pavimento, afferrai un paio di jeans dal cesto della biancheria e li indossai.
«Piper, non possiamo lasciarla qui» bisbigliò la ragazza con l’accento inglese.
«Conosci Jules: è in grado di badare a se stessa, e comunque con la sua parlantina riuscirà a tirarsi fuori dai guai. Non voglio finire di nuovo in punizione a causa sua. E poi non ha senso che ci facciamo beccare tutte e tre» disse Piper. Avrei dovuto riconoscerla. L’avevo sentita parlare moltissime volte a geometria, il secondo anno.
La sua amica evidentemente le diede ragione, perché un attimo dopo udii dei passi affrettati sulla ghiaia del vialetto.
«Merde!» Stavolta la voce arrivava da sotto la finestra.
Mi bloccai, la mano sulla maniglia della porta, in attesa che le amiche tornassero indietro.
Ma alle mie orecchie giunse soltanto il tintinnio metallico delle medagliette di Hooper, il bulldog francese della preside Mulcaster, che stava esplorando il canale di scolo vicino alle aule di scienze.
Espirai profondamente e aprii la porta quel tanto che bastava per sgattaiolare fuori e attraversare l’atrio.
La sala comune era parzialmente illuminata dalla luce azzurra della luna che entrava dalle finestre ad arco alte fino al soffitto. A qualsiasi ora del giorno e della notte quella stanza odorava di popcorn bruciato e vecchi divani. Presi una rivista sgualcita dalla poltrona più vicina e la infilai nella porta che dava sul cortile perché rimanesse socchiusa, poi scivolai di soppiatto nell’oscurità.
La fine dell’inverno e l’inizio della primavera si mescolavano nell’aria in una combinazione tipica del New England ad aprile: un misto di terra appena sgelata, campi da gioco falciati di fresco e la nota salina dell’oceano che proveniva da Hyannis, a chilometri di distanza.
Avanzai con la schiena radente al muro, cercando di non farmi vedere e di evitare i rami appuntiti dei cespugli. Mentre svoltavo l’ultimo angolo, sfregai contro i mattoni la parte posteriore della coscia destra e dovetti fermarmi e mordermi le labbra per non gridare.
Proprio sotto la mia finestra scorsi una figura minuta con la testa appoggiata alle ginocchia e le mani aggrappate al muro retrostante, come se quello fosse l’unico appiglio che le impediva di andare alla deriva.
«Hooper, vieni subito qui!» La voce della preside Mulcaster era più vicina. Riuscivo a immaginarmela, in piedi sulla veranda, con gli occhi ridotti a una fessura nel tentativo quasi impossibile di individuare il cagnolino nero nel buio della notte. Mi abbassai di scatto e procedetti a piccoli passi, affondando le mani nella terra morbida per mantenere l’equilibrio, finché raggiunsi la ragazza piegata su se stessa.
«Ehi» sussurrai «stai bene?»
I capelli folti e scuri le cadevano intorno al viso come una tenda. Staccò una mano dal muro per allontanare alcune ciocche dalla guancia e mi sbirciò da sotto il braccio magro.
Avevo ragione. Avevo sentito la sua voce molte volte prima di allora, ma non l’avevo mai vista da vicino.
I suoi occhi scuri erano arrossati, e gli zigomi affilati, assieme all’abbronzatura delle vacanze di Pasqua, ormai sbiadita, li facevano sembrare enormi. Aveva il naso un po’ troppo grande per il suo viso, ma questo la rendeva più che bella. La rendeva interessante.
Mi fissò per diversi secondi, scrutandomi così intensamente che avrei voluto scomparire nell’ombra, poi mi chiese: «Sai chi sono?»
Annuii. Certo che lo sapevo.
«Magnifique, perché non vorrei essere maleducata, ma ora come ora non ho la più pallida idea di chi tu sia. Merde! Credo di non avere ancora finito…»
Si alzò barcollando, appoggiò una mano al muro e mi vomitò sulle pantofole quello che le era rimasto nello stomaco.
«Cavoli» disse, ancora piegata in due, «spero che tu non le avessi pagate molto.»
Inspirai rapidamente dalla bocca, pregando che i noodles istantanei che avevo mangiato in aula studio restassero dov’erano. «Tranquilla, sono stravecchie. Muoviamoci, prima che la Mulcaster ci veda.»
Come a confermare i miei timori, sentimmo la preside che urlava: «Dannazione, Hooper!», e poi le sue scarpe da ginnastica che sbattevano sugli scalini di legno.
La ragazza annuì debolmente e si raddrizzò. Sapevo che era bassa, ma anche così mi arrivava a malapena alla spalla, e dovetti curvarmi per prenderla sotto braccio e sorreggerla. Ci trascinammo lentamente fino alla porta del dormitorio, dove scalciai via le pantofole e le gettai nel bidone della spazzatura sotto il cartello che indicava l’uscita. In camera, la feci sedere sul mio letto e accesi la lampada da scrivania al minimo dell’intensità.
Rimase quasi immobile mentre le toglievo i vestiti sporchi, e quando le misi una maglietta tese le braccia verso l’alto come una bimba che aspetta di essere presa in braccio.
«Sei così bella. Così alta» mi disse, ricadendo di peso sul letto. «Mia sorella era alta. Tutti gli altri sono alti.» La sua espressione divenne pensierosa. La spinsi con delicatezza verso il centro del letto, in modo tale che non rischiasse di cadere, poi mi levai la camicia e i jeans.
«Giusto perché tu lo sappia, prima che ci accoccoliamo sotto le coperte» biascicò «a me piacciono le ragazze. Mi piacciono… in quel senso.»
«Shhh.» Mi portai un dito alle labbra, ma lei aveva già gli occhi chiusi. «Lo so.»
Si addormentò mentre ero in bagno a lavarmi i piedi. Cercando di non far rumore, tornai indietro lungo il corridoio, aprii di pochi centimetri la porta che dava sul cortile e raccolsi dal vialetto un sasso bianco dalla forma perfetta. Continuai a muovermi in punta di piedi anche quando rientrai in camera e infilai il sasso nel vecchio porta-attrezzi di legno che tenevo nell’armadio, accanto al borsone da viaggio.
Non mi serviva un ricordo tangibile di quella notte, per non dimenticarla, ma ne volevo uno comunque.
Mi rannicchiai nella parte del letto più vicina al muro, scavalcando la ragazza. Il suo corpo minuto occupava a stento un terzo del materasso a due piazze. Prima di chiudere gli occhi guardai Rosalie. Si era tirata fin sopra la testa la trapunta con la bandiera canadese. Il giorno dopo avrei dovuto fare i conti con una compagna di stanza di pessimo umore.
Rimasi sveglia a lungo, a causa della strana sensazione di avere qualcuno sdraiato accanto, così vicino. Al mattino, l’unico segno che Julia Buchanan fosse mai stata lì era l’impronta della sua testa sul cuscino, di fianco alla mia.


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