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Chi lo avrebbe mai detto, il “motore” della cultura è ancora Giuseppe Verdi

Creato il 14 marzo 2011 da Massimoconsorti @massimoconsorti
Chi lo avrebbe mai detto, il “motore” della cultura è ancora Giuseppe Verdi Oggi avremmo voluto parlare dell’ennesima boutade berlusconiana, quella che fa: “I signori giudici devono capire che sono cittadini come tutti gli altri”. Ma dal momento che siamo convinti che l’unico a non averlo capito è proprio il presidente del consiglio (che è un cittadino come gli altri), preferiamo parlare di cultura per non concedere ancora spazio prezioso ad uno psicopatico affetto dalla “sindrome di Pinocchio” con un spruzzo di pseudologia. L’antefatto. Sabato scorso il maestro Riccardo Muti stava dirigendo la “prima” del Nabucco al Teatro dell’Opera di Roma. Tutti sanno che Muti è il più grande interprete di Giuseppe Verdi presente sulla scena operistica mondiale per cui, il “suo” Nabucco solitamente vibra (come fosse stato scritto ieri), toccando corde che ad altri direttori sono precluse. Quando l'opera venne rappresentata per la prima volta era il 1842 e l’Italia, non ancora Italia, era attraversata dai moti risorgimentali. Il Nabucco, con la sua storia di ebrei schiavi, aveva rappresentato da subito la bandiera del Risorgimento, il canto di migliaia di giovani che sognavano di vivere un paese unico, unito e libero. E la frase del coro: “Oh mia patria, si bella e perduta” era diventata il grido di quella battaglia che contribuì non poco alla cacciata degli austriaci dal Nord Italia. Con il tempo i leghisti, noti per la loro assoluta padronanza culturale e del senso della Storia, se ne sono appropriati fino a considerare la Padania la loro “patria si bella e perduta”, con il risultato di stravolgerne completamente il significato, come hanno fatto prendendo a simbolo gli Indiani d’America. Ma i padani sono persone confuse, prendiamone atto e torniamo a noi. Da tempo immemorabile ogni volta che il Nabucco viene eseguito, c’è il bis del “Va pensiero” e il maestro Muti, anche in questa occasione, aveva ritenuto non sottrarsi alla consuetudine. Solo che prima dell’inizio dell’opera aveva parlato il sindaco Gianni Alemanno, fatto che a Muti aveva fatto nascere l’esigenza di far sentire anche la voce dei musicisti. Così, stravolgendo ogni regola, aveva invitato il pubblico a cantare “Va pensiero”, con il risultato che “Oh mia patria, si bella e perduta” è stata intonata dagli spettatori in piedi e con le lacrime agli occhi. Il maestro Muti, sentito subito dopo la fine del Nabucco, ha detto: “Dovevo decidere: faccio il bis come viene chiesto, una ripetizione consolidata nell'abitudine, oppure offro a questa ripetizione un carattere nuovo, aderente alla situazione? Ho pensato, il coro ha cantato, 'Oh mia patria, si bella e perduta' e sicuramente se perdiamo al cultura andiamo in questa direzione, facciamo che questo grido sia contro questa operazione di riduzione al nulla della nostra cultura. Allora ho invitato, dato che il discorso doveva essere globale, tutti a cantare. Non mi aspettavo che l'intero teatro si unisse, tutti sapevano il testo. Poi, come in una situazione surreale, dal podio ho visto le persone alzarsi a piccoli gruppi, per cui tutto il teatro alla fine era in piedi, fino alle ultime gradinate. Era una specie di coralità straziata e straziante, un grido che invocava il ritorno alla luce della cultura che è la colonna portante dell'Italia, sono le nostre radici". Insomma, Riccardo Muti aveva colto al volo un’occasione unica e irripetibile, unire alla parola “patria” la parola “cultura” senza la quale si corre il serissimo rischio di essere il “popolo ebreo schiavo” di cui parla Verdi nella sua opera. Stanco anche lui delle porcate di Giulio Tremonti, che capisce di cultura come un asino di matematica, il discorso del maestro è stato ovviamente più ampio e non si è esaurito con la “coralità” del “Va pensiero”. Ha dichiarato infatti: “Quando il coro ha cantato ‘oh mia patria si bella e perduta’, ho pensato che quel momento fosse carico della situazione drammatica non solo per le istituzioni ma anche per la vita delle persone chiamate a studiare nei conservatori, nelle accademie, nelle università. Ho sentito che quel grido veniva dal profondo dell'animo, un grido vero da parte di chi sta vivendo questo dramma, uomini e donne che producono cultura nel nostro Paese. E lo fanno nel disinteresse sempre più grande da parte di chi deve preservare la cultura, non solo per rispetto del paese ma anche per il rispetto del mondo verso l'Italia. Il mondo non guarda a noi per le tecnologie, facciamo cose importanti ma quando si pensa all'Italia si pensa ai poeti, ai pittori, ai musicisti, ai nostri musei e teatri, a ciò che l'Italia rappresenta". Ieri sera, dalla viva voce della ministra Gelmini a Che tempo che fa, abbiamo appreso che lo stato destina alla cultura la stessa cifra prevista per le scuole private (cattoliche), ma soprattutto abbiamo saputo che esiste l’articolo 33 della Costituzione Italiana che recita: “L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Spesso si dice che le teorie di Giambattista Vico sulla “storia” siano fuori da ogni contesto reale, eppure c’è il suo senso dell’appalesarsi delle vicende umane che ne testimonia l’attualità. Per Vico essa ha una legge che la guida, si chiama “schema triadico” e prevede tre età: quella degli déi, quella degli eroi e quella degli uomini. Berlusconi è collocabile nelle prime due, ma Tremonti, Bossi, la Gelmini e Calderoli dove diavolo li mettiamo?

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