L’altra sera ho trovato per caso una frase su Twitter. Una delle tante che scorrono sulla timeline e ti capitano sotto gli occhi perché qualcuno l’ha retwittata. “Copriti gli occhi” diceva. “Ti si vedono tutti i sogni.”
Gli occhi di Matthias Brandle sono verdi. Lo so perché qualche tempo fa ho scritto qualcosa su di lui. Oggi quegli occhi erano dello stesso colore dell’acqua che si insinua tra i sassi bianchi di certe spiaggette lacustri: semitrasparente. Velati da un misto di commozione e stanchezza. Forse anche di incredulità. La fatica. Ecco, quella si vedeva tutta. Non ci sono strani stereotipi, nel ciclismo. Le vittorie sono festeggiate così, appena scesi dalla bicicletta, ancora lucidi di sudore, con il cuore che batte ancora forte e il fiato corto che tronca le parole.
L’Equipe lo aveva definito un corridore “anonimo”. In realtà, per chi segue le telecronache per intero e non alza il volume solo agli ultimi chilometri, il suo nome si sente spesso. E’ uno di quelli che va in fuga da lontano e con il tempo non ha un cattivo rapporto, visto che è stato tre volte campione nazionale a cronometro. Certo, dopo il glorioso e riuscito tentativo di Jens Voigt, quando Matthias ha annunciato di voler provare a battere il record dell’ora, sembrava l’ennesima trovata pubblicitaria: un salto nel vuoto, uno dei tanti. Provarci non costa quasi nulla. E forse nessuno ci credeva veramente. Nessuno crede mai abbastanza ai sogni coltivati con umiltà. Anche qui conta spesso il nome. Se sei qualcuno hai il diritto di parlare ed essere ascoltato. Di solito funziona in questo modo. Nel ciclismo, per fortuna, non è così: gira e rigira è sempre la strada (in questo caso la pista) che decide. Nessun altro. Una mano del destino, un vento che non si può controllare. Le chiacchiere si fermano tutte lì, attorno a quell’anello di legno. Non possono entrare. Perché la pista è un tempio: c’è il corridore, la bicicletta senza freni, la linea nera da seguire per tentare di non perdere la rotta, di mantenere le forze, di resistere alla forza stessa che ti fa girare come in una enorme lavatrice. Che cosa potrebbe mai contare al di fuori di questo? E’ un mondo a parte e come tutti i mondi a parte, non fa entrare niente della vita normale che ci scorre tra le dita tutti i giorni. Quando Matthias si mette il casco con l’appendice, riflesso nella visiera trasparente c’è il pubblico del velodromo. C’è la gente che è venuta dall’Austria con i pullman. E’ lì per lui, per quell’ora che è un po’ come una porta per entrare nella stessa stanza dei grandi. La chiave sono i chilometri. Per percorrerne il più possibile, per battere i 51,115 di Voigt, bisogna andare al massimo. Sessanta minuti senza smettere di spendere tutto. I suoi ventiquattro anni non riescono ad andare di pari passo con le tabelle. Spingono più forte. Perché la velocità chiama, sempre di più. E forse si è anche convinti di poter resistere, di poter tenere quel ritmo fino alla fine. E’ così che riesce a prendersi un minuto di vantaggio. Ma la strada è lunga, anche se è tutta contenuta in quel velodromo sotto le luci artificiali. Si snoda tra il silenzio della pista e il rumore del tifo, di quell’incoraggiamento fragoroso e costante che non si ferma, gira attorno come una ola, ad ogni passaggio. La strada è lunga e se la testa va avanti, il corpo vuole cedere. L’ultimo quarto d’ora è il vero calvario. Minuti eterni e chilometri che chiedono di essere percorsi. La linea nera è sempre lì, uguale, detta una rotta che non cambia e che si fa fatica a seguire senza sbandare. Non c’è più niente in quell’anello, grida solo la fatica. Anzi no, sopra di lei, c’è una voce che i ciclisti ascoltano spesso. Bisognerebbe chiamarla costanza o determinazione. O resistenza fino alla fine, fino a quando abbiamo leccato tutte le forze che avevamo dentro. Ma non c’è una parola che la possa definire.
Poi finalmente, come se tutto fosse stato semplice, il record viene battuto. Matthias è il nuovo detentore. Per settecento metri. Un soffio che basta. Basta a far sì che le fatiche e più che mai la fiducia non siano state vane. E’ una rivincita, questa. La rivincita degli anonimi che coltivano con devozione sogni da grandi campioni. La rivincita di quelli che per la gente non sono all’altezza delle battaglie che combattono. Siamo tutti soldati semplici, nella vita. Forse qualcuno potrà permettersi un cavallo ma non per questo potrà dirsi cavaliere.
Quei capelli spettinati, umidi, la faccia lucida di sudore, gli occhi semitrasparenti persi nella commozione e nella stanchezza sono l’anima grezza e bellissima di questo sport che continua a ripeterci che non se ne andrà mai. Continuerà a stupire i cinici, i calcolatori, i malati delle tabelle, gli sfegatati dell’umanità-macchina. Chiamale vittorie, chiamale fortune. Chiamale rivincite. E’ più che mai giusto. Quando qualcuno tenta di mettere le etichette, il ciclismo le strappa via, subito. Quei settecento metri sono uno strappo. Non solo alle etichette, anche ai finali già scontati, alle stelline dei pronostici, ai giudizi approssimativi, ai tecnicismi. Uno strappo secco per dirci che fortunatamente sono ancora tante le cose che non sappiamo prevedere.