Chiamatemi Brian – 1a puntata

Da Melusina @melusina_light

Perché questo è il mio nome, Brian, anche se nessuno lo ricorda.
E questa è la mia storia, la storia di quella sensazione di appagamento, di realizzazione, di avere svelato il significato della propria esistenza e di avere quindi conquistato la propria univoca identità – cosa tanto rara, in questa vita –  che io non ho raggiunto in questo mondo, e neppure nell’Altro, bensì nel mondo che sta in mezzo fra i due: il mondo delle anime smarrite, intrappolate a metà strada sotto la forma imperfetta e miserevole di Fantasmi.

Sì, per essere morto sono morto. Sono morto nei primi anni bui del secondo millennio, dopo una vita breve e insignificante.
Già di mio pezzente di nascita (e per di più mingherlino, scialbo e di salute cagionevole), ero l’ultimo degli stallieri del barone Poggio di Malaterra e passavo le mie giornate occupandomi del più umiliante dei lavori: raccogliere lo sterco nelle stalle. Inutile, oltre che umiliante, poiché appena avevo finito con l’ultima vacca della fila era già ora di ricominciare con la prima. Inutile, umiliante e anche alienante, al punto che nessuno ricordava nemmeno più il mio nome, e tutti mi si rivolgevano con uno sferzante e generico “Ehi tu”, cui seguivano invariabilmente ordini, legnate o entrambe le cose insieme. E così ero un invisibile, destinato a restare tale per sempre.
Di certo non mi vedeva Guendalina, la figlia del barone, né sospettava che mi fossi storditamente innamorato di lei e avessi deciso di mettere in gioco la mia vita per vincere la sua indifferenza. L’unico modo era distinguermi in un’impresa virile, e all’epoca non era così difficile imbattersi in qualche fatto d’arme. Il barone Poggio era giusto in sempiterna tenzone con il duca Orso di Montegiuda, e a ogni minima scusa i loro armigeri si scontravano nella piana e se le davano di santa ragione. Avevo vent’anni e il cuore gonfio di disperata voglia di rivalsa – nonché d’amore – quando mi gettai anche io in una di quelle mischie, e fui travolto dai cozzi delle mazze ferrate, dai sibili degli spadoni, dai nitriti terrorizzati dei cavalli, dal clangore dei ferri e dagli apocalittici incoraggiamenti delle trombe di guerra. Paralizzato sulle mie gambe tremanti e con uno spadino ridicolo in mano, tutto quello scenario sanguinoso e brutale mi si dispiegò davanti agli occhi per un solo istante, quello sufficiente a crollare per terra senza colpo ferire né averne inferti, morto semplicemente e incruentamente di spavento.
Intorno a me continuarono a squartarsi ululando per un bel po’, mentre nel cielo sopra il mio corpo esanime navigavano le nubi del mattino, poi quelle del pomeriggio e alla fine quelle viola del crepuscolo, quando gli echi della battaglia pian piano si spensero e ciò che restava dei suoi protagonisti si trascinava a casa, lasciando sul campo il dubbio che nemmeno stavolta ci fosse stato un vincitore e la certezza che il numero di caduti fosse gloriosamente alto per entrambi gli schieramenti.
Passarono a recuperare i feriti, ma io non ero fra quelli.
“Questo come ti pare?”
“Morto, morto”.
“Allora lo prendiamo su dopo”.
Più tardi ripassarono infatti a recuperare i morti, e tra loro si aggiravano un Angelo e un Diavolo inviati dai loro superiori a spartirsi le anime. Si scambiavano brevi commenti sommessi del genere: “Questo prenditelo pure tu” e “Sì, direi che spetta a me. Tu magari prenditi quest’altro”.
Arrivati accanto a me, litigarono. Ma non perché mi volessero entrambi, bensì per il motivo opposto.
 ”Questo proprio non lo conosco: si vede che non era poi così buono. Prendilo tu”.
“Non lo conosco neanche io, si vede che non era nemmeno così cattivo. Prendilo tu”.
“E io che me ne faccio, scusa?”
“E perché dovrei sapere cosa farmene io, allora?”
“Vabbè, intanto lasciamolo qua e andiamo a informarci meglio – conclusero, e poi mi si rivolsero – Tu resta qua, capito? Da qualche parte ti si sistema, vedrai”.
Ma quel tono così poco convinto mi suonò subito come una scusa. Infatti aspetta aspetta, non venne più nessuno.

A notte fonda passò un altro personaggio, uno alto, bianco e diafano, così diafano che i neri cespugli dietro a lui si vedevano in trasparenza. In quel momento avevo già perso di vista il mio corpo, che era stato raccolto e buttato nella calce insieme a decine di altri con un procedimento del tutto indolore. Il nuovo giudice era venuto dunque per occuparsi d’altro, dell’ultima cosa che mi restava: la mia anima, rifiutata dall’Angelo di San Pietro e dal Luogotenente del Diavolo.  
“Guardi che sono morto, sa – lo avvertii per correttezza.
“Lo so che sei morto, per la precisione sei un morto malriuscito; per questo non ti hanno voluto né di qua né di là, quindi ora sono costretto a prenderti in custodia io.”
Così fu lui che mi si prese, lui, il Decano di zona, borbottando un po’ schifato perché già a prima vista non gli avevo fatto una bella impressione, né come morto né come potenziale fantasma.
Mi esaminò subito, e scoprì ciò che temeva: non sapevo attraversare i muri, non sapevo apparire e sparire, non sapevo appollaiarmi sopra le tombe o trascinare catene in soffitta, non avevo la minima idea di cosa dovesse saper fare un fantasma e soprattutto di esserlo diventato io stesso.
“Ho già bell’e capito: come fantasma non servi a nulla”.
Cercai dentro di me un minimo di orgoglio e gli assicurai che ce l’avrei messa tutta per imparare, ma lui la sapeva più lunga.
“Lascia perdere, sei proprio negato. Guarda solo come sei morto: di spavento! Uno che muore di spavento prima ancora che qualcuno lo tocchi non imparerà mai a terrorizzare nessuno”.
“E allora? – chiesi io, umiliatissimo.
“Allora niente. Trovati un posticino tranquillo e rassegnati. Ti aspetta un’eternità di invisibilità e noia, che ti sarebbe convenuto bruciare all’inferno”.
“Beh, grazie tante, eh – replicai piccato – Non mi avrebbe fatto schifo neanche salire a tripudiare in Paradiso, ma se non mi hanno voluto vorrà dire che resterò qui, e cercherò di non dare fastidio a nessuno. Cosa che peraltro quando ero vivo mi riusciva benissimo”.

(stasera mi fermo per un pit stop, ma prometto che torno e finisco)


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