Il primo tour a cui abbiamo partecipato durante la nostra vacanza in Messico, ci ha portato a visitare quello che è probabilmente il sito archeologico simbolo della cultura Maya. Dichiarato patrimonio dell’umanità UNESCO nel 1988 ed entrato a far parte delle 7 meraviglie del mondo moderno nel 2007, il complesso di Chichén Itzà (letteralmente “Alla bocca del pozzo degli Itza”) rappresenta sicuramente la meta più popolare e quotata dagli escursionisti che si recano nella penisola dello Yucatan.
Quest’area, famosa soprattutto per il tempio di Kukulkan (conosciuto anche come El Castillo), che si erge imponente a pochi passi dall’entrata principale, è anche sede di molte altre opere architettoniche certamente meno celebri ma non per questo degne di minor nota.
Ciò che ci colpisce, una volta all’interno, è l’ordine estremamente rigoroso di vialetti, stradine e vegetazione, un paesaggio piuttosto forviante per l’immaginazione in quanto, come ci è stato spiegato dalla guida, le rovine apparivano del tutto diverse al momento della loro scoperta; al tempo, infatti, la foresta regnava sovrana, alberi, cespugli e sterpaglie coprivano i monumenti che,seppur parzialmente celati, avevano certamente un aspetto meno artefatto rispetto ad oggi.
Tuttavia, nonostante il lavoro di ricostruzione e pulizia messo in atto dagli archeologici, il sito conserva ancora un certo fascino e un’atmosfera in grado di suscitare soggezione e rispetto nel visitatore.
Eretto tra l’XI e il XII secolo, El Castillo stupisce e incanta non solo alla vista,per il suo aspetto così perfettamente regolare ma, soprattutto, in quanto comprova l’incredibile maestria ingegneristica dei Maya.
E’ bastato porci frontalmente rispetto alla facciata nord, in piedi a qualche metro di distanza, ed iniziare a battere le mani per rimanere, all’improvviso, del tutto stupefatti. Ecco infatti che il suono del nostro battito, entrando nella piramide, rimbalzando su di essa e uscendo successivamente, crea un’eco decisamente inaspettato: il verso del giaguaro, animale importantissimo per questo popolo.
Inutile poi parlare degli incredibili, quanto noti, effetti di luci ed ombre che, in occasione degli equinozi, danno vita ad un grosso serpente che, ora dopo ora, gradino dopo gradino, scende la piramide dall’apice fino alla base dimostrando le inspiegabile conoscenze che i Maya già possedevano in ambito astronomico.
Ma il bello di Chichén Itzà non si esaurisce qui.
A 150 metri dal Castillo, ecco il maggiore dei 7 campi del gioco della Pelota identificati all’interno del sito. Lungo 166 metri, largo 68 e con altissime mura di pietra, esso rappresenta un altro esempio di acustica sorprendente; l’eco delle nostre voci è infatti incredibile e pare che ciò fosse stato ideato ad hoc dai Maya in modo da permettere, durante le partite, la comunicazione da un lato all’altro del campo.
Come si intuisce dai bassorilievi sulle pareti,il gioco della pelota (originariamente Poc-ta-Poc) era tutt’altro che uno sport, come lo intendiamo noi oggi; esso infatti era in realtà un rito religioso nato, secondo la leggenda, da una sfida lanciata dagli dei a due fanciulli i quali, giocando con una palla contro le pareti di un tempio, li avevano risvegliati scatenando le loro ire.
Pare che fare “canestro” all’interno dei due anelli di pietra, posti a 6 metri di altezza, fosse un’ impresa assai ardua (per non dire impossibile): la palla poteva essere colpita solo con i gomiti, le anche o le ginocchia anche se alcuni archeologici ritengono che, in certi casi, venissero utilizzate anche delle mazze o dei bastoni. Il gioco terminava con un sacrificio umano.
El Catillo non è l’unica piramide a gradoni del sito archeologico; Il Tempio dei Guerrieri infatti, seppure essendo di dimensioni minori, è costituito da una struttura molto simile che porta sulla sommità una statua utilizzata in passato come altare per i sacrifici.
Di particolare interesse sono poi le “Mille colonne” intagliate adiacenti all’edificio e raffiguranti dei guerrieri.
Tipica poi, in ogni sito archeologico Maya, è la presenza di un osservatorio astronomico; quello di Chichén Itzà, conosciuto come El Caracol (cioè la chiocciola, per la scala di pietra a spirale posta al suo interno), è costituito da un edificio rotondo posto sopra una larga piattaforma quadrata. I Maya determinavano il momento dei solstizi per mezzo delle ombre proiettate dal sole all’interno della struttura.
Ai margini di El Caracol sono collocate delle ampie coppe di pietra che venivano riempite d’acqua; l’osservazione delle stelle che vi si riflettevano aiutava gli astronomi Maya a determinare il loro complesso, ma estremamente preciso, calendario.
Gironzolare tra i sentieri di Chichén Itzà è tutt’altro che noioso; una caccia al tesoro infinita alla ricerca del bassorilievo migliore, del giaguaro meglio conservato, del serpente più spaventose e, passando da un monumento all’altro, da una rovina all’altra, ci si stupisce di fronte ad ogni piccolo dettaglio che spesso pare quasi anacronistico rispetto al tempo in cui il complesso è stato realizzato.
E come se tutto ciò non fosse sufficiente per un tour, nel pomeriggio eccoci a nuotare in un cenote, una sorta di grotta o lago sotterraneo originato da quello potremmo definire un fenomeno carsico, tipico di questa zona del Messico.
E per concludere in bellezza la giornata, una puntatina al città colonica di Valaldolid, fondata dagli spagnoli e per questo omonima della località castigliana; molto carina e accogliente con la grande piazza principale, la cattedrale di San Bernardino e le sue stradine variopinte è stata un’ottima occasione per realizzare qualche suggestivo scatto al calar del sole.