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CHIEDI DI LUI | Daniela Tuscano e Cristian Porcino raccontano Renato Zero

Creato il 24 giugno 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

zerobannerintervista a cura della Redazione Amedit

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Decriptare una figura complessa come quella di Renato Zero non è mai stata un’impresa facile, e quelli che finora vi si sono cimentati hanno offerto contributi pressoché trascurabili (salvo rare eccezioni), talvolta pericolosamente fuorvianti; si va dai copia-incolla zeppi di imprecisioni e trita aneddotica alle imbarazzanti invettive di fan delusi incapaci di cogliere la tridimensionalità e l’umana genuina contraddizione (in buona parte solo apparente) dello Zero-pensiero. Ad oggi i testi sul fenomeno Zero ammontano a una buona dozzina, ma nessuno preso singolarmente brilla per acutezza ed esaustività; tra sfoghi amatoriali, letture distorte, risibili congetture e pedanti compilazioni la figura presa in esame finisce per assumere tratti irrimediabilmente caricaturali e grotteschi. Fortuna che Renato Zero è di ben altra pasta, lontano anni luce da chi vuol dipingerlo a propria immagine e somiglianza: arcano incantatore, astuto mercante, troia redenta, diva capricciosa e bla bla bla. Lo ribadiamo, Renato Zero è ben altra cosa. Lo sanno bene Daniela Tuscano (insegnante, scrittrice e blogger) e Cristian Porcino (filosofo, scrittore e critico letterario), coautori di Chiedi di lui, un saggio che finalmente rende giustizia, pagina dopo pagina, alla vera storia e alla vera sostanza del cantautore romano. Un’analisi schietta, puntuale, attenta, condotta dall’interno, vissuta, condivisa. Il saggio si compone di due anime ben distinte (che diventano tre, se si tiene conto delle testimonianze dei sorcini aggiunte in appendice).

Daniela Tuscano recupera il Renato della Roma pasoliniana e felliniana, quella silhouette androgina e riccioluta sempre in bilico tra il palco e il marciapiede. Lo prende per mano e lo conduce fino a noi, truccato dalla testa ai piedi ma nudo, nudo come solo sa esserlo un artista. Sullo sfondo gli anni Settanta, gli anni di piombo degli attentati ma anche quelli stroboscopici delle discoteche e

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delle provocazioni ambigue, preceduti dalla psichedelia dei figli dei fiori e della generazione-Piper (lo storico locale di Via Tagliamento). <<Additato come esempio da non seguire – scrive Daniela Tuscano – icona della decadenza, della frenesia e della materialità, Renato ispirava, a chi lo ascoltava davvero, sentimenti addirittura casti.>> Cominciamo con la domanda forse più difficile: in che cosa era diverso Renato Zero? E in che cosa continua a esserlo ancora oggi?

La diversità di Renato Zero consisteva, paradossalmente – ma tutta la sua arte, e forse la sua vita, è un continuo paradosso – nel suo essere un’anima antica; una forza del passato, direbbe Pasolini. Ha incarnato nel vocabolario dell’epoca l’eterno dramma dell’uomo: non tanto e non solo la domanda di senso, ma la percezione d’un senso che, da qualche parte, pur esiste, la frantumazione dell’identità ma anche l’anelito a una sua ricomposizione, l’apertura a una speranza non consolatoria, da raggiungere varcando la porta stretta delle proprie oscurità, finalmente snudate, dichiarate, persino urlate. Ma non era facile comprenderlo per chi si limitava ad ascoltare solo alcuni brani o soffermava l’attenzione sul personaggio: Zero va ascoltato tutto, provocatorio e romantico, bestemmiatore e chiesastico, non per elogiarlo incondizionatamente, ma per evitare di fraintenderlo come troppo spesso è accaduto.

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La forza del tuo scritto sta nell’aver saputo calare Renato nel suo tempo, nella società di allora e, al contempo, nell’aver rievocato il dispiegarsi della sua parabola attraverso la tua esperienza diretta. Bello quando scrivi: <<Zerofobia apparteneva a un fantasma di biacca su sfondo nero.>> Pensi di aver detto tutto? C’è qualcosa che volutamente hai omesso?

Spero non arrivi mai il momento in cui sentirò d’aver “detto tutto”. Sarebbe la fine: noi viviamo di ricerca, siamo ricerca. Ciò premesso, nel caso specifico no, non credo d’aver omesso nulla: Zerofobia è quello, un fantasma di biacca su sfondo nero. Irripetibile perché chiude un capitolo; oltre, in quella direzione, non è dato proseguire. In Zerofobia Renato ha condensato tutte le sue esperienze di ragazzo cresciuto troppo in fretta, i suoi tunnel, la sua rabbia ancestrale e lancinante; la sua diversità, ancora una volta. S’è trattato, in seguito, d’uscire dalla “natural burella”. Taluni si son fermati lì, rimanendone appunto travolti, inchiodati in un’archeologia dell’anima alla quale Renato ha voluto, in linea col suo temperamento, staccarsi, pur con risultati artisticamente alterni.

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Zerofobia fu trasmesso in seconda serata su Rai Due l’8 aprile 1978. <<…il giorno successivo timorati parlamentari cattofascisti rivolsero un’interrogazione parlamentare contro la spudorata Rai Due per lo “scempio” trasmesso in seconda serata.>> Quand’è che Renato ha smesso di scandalizzare? (sempre ammesso che abbia smesso di farlo).

Etimologicamente scandalo significa ostacolo, inciampo. Chi scandalizza, pertanto, si trova sempre in una posizione di minoranza: è la pietra, scartata dai costruttori, divenuta testata d’angolo, contro la quale urtano certezze, convenzioni/convinzioni della maggioranza. Il destino d’un artista minoritario, come in origine è stato Zero, è proprio la popolarità: e, del resto, a quest’ultima il Nostro ha sempre aspirato, benché oggi qualcuno tenda a dimenticarlo. Ennesimo paradosso: anche quello del barricadero, alla lunga, diventa mestiere. Viene naturale l’esigenza di sganciarsi da un ruolo definito. Credo che a Renato oggi manchi un contraddittorio serio, qualcuno che lo (ri)metta in crisi, lo interpelli davvero sulla sua arte. Se lui, come recita il brano forse più autobiografico dell’ultimo disco, ha il diritto di reclamare per sé “una vacanza”, anche chi grazie a lui si è sentito meno solo ha diritto ancora a una voce. Zero rievoca spesso all’interlocutore i suoi trascorsi accidentati, “tu dov’eri mentre io prendevo botte?”, dimenticando che quelle stesse botte le stava prendendo pure l’altro, e arrancava la vita, battendo l’identico marciapiede così sapientemente immortalato dal Nostro; senza però mai liberarsene, senza aver mai conosciuto il riscatto del successo. Non per tutti esiste una redenzione, una luce. Zero scandalizza quando canta dei vecchi senza ipocriti eufemismi, quando invoca Dio – un Dio escluso come irrilevante da certo conformismo progressista contro cui profeticamente si scagliava Testori – e lo rimette provocatoriamente al centro dell’uomo; meno quando lo presenta dalla rarefazione d’un pulpito, ossequioso alle gerarchie ecclesiastiche. O quando sembra prendere le distanze, con dichiarazioni discutibili, dal personaggio che l’ha reso famoso e amato. E di motivi per scandalizzarsi, oggi, ce ne sono moltissimi: dalla disoccupazione al razzismo, dalla mercificazione dei corpi, anche giovanissimi, alle guerre tra poveri, all’omofobia che colpisce soprattutto gli adolescenti, molti dei quali suicidi per disperazione. Qui non si tratta d’ideologia o peggio d’ideologismo, bensì d’ascoltare il battito del cuore cittadino, come Renato ha saputo fare tanto bene per tanti anni.

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Al Renato Zero luccicante e sovraesposto fa da contraltare quello blindato e inaccessibile. Fin dove si può raccontare la sua figura? Non a caso torni più volte sulle numerose affinità con Pasolini, che infatti scriveva: <<L’arte di contraddirmi. Dell’essere contemporaneamente con te e contro di te. Con te nel cuore, in luce. Contro te nelle buie viscere.>>

Una canzone, secondo me, svela tutto, tanto per cambiare, nell’apparente ossimoro: Quello che non ho detto. Uno dei tanti gioielli accantonati della sua produzione. A lungo la cosa mi ha infastidita. Adesso non più. Renato è universalmente noto come l’ugola dagli accenti tonanti, eppure le vere rivelazioni le ha profuse fra le note accennate, talora fra i silenzi che, come sai, conferiscono a un intero brano la giusta espressività. Se dovessi rappresentarlo con un segno grafico, userei i puntini sospensivi. O, forse e meglio, quegli “eccetera” di cui abbonda lo Zibaldone leopardiano. Un flusso di coscienza. Inafferrabile e carsico.

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In che misura chi non ha vissuto Zerolandia può realmente capire?

Non si può comprendere fino in fondo Renato Zero estrapolandolo dal folgorante e colorato schizzo dei ’70. Quelle sono le sue radici artistiche, come quelle umane si ritrovano nei caseggiati sparsi della Montagnola. Zero appartiene quindi, a pieno titolo, alla sua epoca. Al tempo stesso, la travalica. Le radici sono indispensabili per la vita d’un albero, ma non più di tronco, foglie eccetera. Come accennavo poc’anzi, Zero va ascoltato in blocco: solo così scopriremo che anche negli anni del nichilismo trionfante egli se ne chiamava orgogliosamente fuori; che era stato Conchita Würst ben prima di Conchita Würst (persino nell’ultimo spettacolo abbiamo visto ballerini barbuti in guêpière e tacchi a spillo…), e come quest’ultima declamava “il sesso che vi pare”, ma con accenti tutt’affatto diversi; opposti, direi. Malgrado le apparenze, Zero non ha offerto identità liquide da mutare a proprio capriccio, in ossequio al dettame narcisistico, ma ha ribadito la sua estravaganza in un modo da certuni ritenuto vittimista, quando non addirittura disimpegnato e superficiale; mentre era solo una spietata fotografia della realtà, più o meno gradevole (e gradita). Di qui la credibilità di certi appelli – famiglia, amicizia… – che sembrerebbero agli antipodi del personaggio. Tali appelli, onnipresenti nella sua opera, sono quelli che attraggono ancora i giovani d’oggi, bisognosi di messaggi “forti” e concreti. Le testimonianze dell’ultima parte del libro lo provano: questi ragazzi comprendono la differenza tra il rassicurante Renato attuale e quello provocatorio d’un tempo, ma ne subiscono ugualmente la seduzione, rapiti come potevamo esserlo noi, e per le nostre stesse ragioni. È vero che il panorama artistico attuale è piuttosto sconfortante e Zero è rimasto senza eredi né antagonisti d’uguale spessore, ma non mi sento di svalutare del tutto un’esperienza che, comunque, per molti continua a rimanere viva e vitale, capace d’infondere ottimismo e passione.

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Sull’enciclopedia, alla voce Renato Zero, cosa vorresti trovarci scritto?

…Quello che di sé ha scritto lui: L’Imperfetto.

Dove sta andando il Renato del futuro? Cosa ci riserverà nei prossimi anni: inquieta avanguardia o un più cauto manierismo?

Non mi piace mai fare previsioni, specialmente nel suo caso: quando t’aspetti svolti a sinistra, eccolo curvare a gomito verso destra; dice di volersi ritirare, poi sforna album e tour interminabili. E tuttavia, l’attuale scena musicale italiana è fagocitata dal mercato e osare diventa sempre più rischioso: i risultati si devono ottenere, tutti e subito. Oggi cantanti come Zero, Dalla o altri non potrebbero mai nascere. Probabilmente in futuro qualcuno valorizzerà anche quest’ultimo scorcio della carriera zerica, considerata da alcuni un po’ troppo compiaciuta e ammiccante verso la parte più acritica del pubblico. Io preferirei suoni (e testi) più asciutti e graffianti, qualche chitarra in più e qualche violino in meno; ma non so se Renato sia del mio stesso avviso. Naturalmente il giudizio sulla produzione dell’ultimo Zero dipende dall’analisi che ne faccio.

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Copyright 2014 © Amedit – Tutti i diritti riservati. Severamente vietata la diffusione senza citazione della fonte: “Amedit Magazine – Giugno 2014″.

Rivolgiamoci ora a Cristian Porcino, autore della seconda sezione del saggio, intitolata Da Me a Zero. Non è la prima volta che ti misuri con la figura umana e artistica di Renato Zero; risale infatti al 2008 il tuo saggio I Cantautori e la Filosofia da Battiato a Zero. La tua indagine in Chiedi di lui parte dal 1993 (anno del tuo primo approccio alla musica di Zero) e, molto significativamente da un brano controverso come Ave Maria. In alcune interviste Renato si è definito cattolico: credi che la terminologia sia appropriata?

Sì, la definizione è corretta. Come ho scritto nel libro, la matrice cattolica nei testi di Renato è onnipresente. Zero è cresciuto in quell’ambiente, e parafrasando il filosofo Benedetto Croce non possiamo non dirci cristiani, se consideriamo che il nostro paese trasuda religiosità in ogni suo aspetto. La sua vicinanza alla Chiesa peraltro mi risulta molto gradita al mondo cattolico. Molti sacerdoti, suore e frati lo ascoltano e lo ammirano. Però posso affermare che adesso nelle canzoni di Renato il richiamo a Dio si avverte ancora, ma come ho specificato in “Chiedi di lui”, Zero si è totalmente rasserenato anche in ambito religioso. All’inizio la religiosità di Renato era più genuina, più casereccia, e di quella sana inquietudine delle origini nelle sue canzoni non vi è più traccia.

Ravvisi una continuità lineare tra le posizioni antiabortiste di Sogni nel buio (del 1973) e quelle in difesa della sacralità della vita de La vita è un dono (2005)?

Una continuità ideologica fra i due pezzi esiste ancora. L’unica differenza consiste, forse, nel passaggio da giovane pensatore laico in Sogni nel buio, con deitoni talvolta retorici ma meno costruiti rispetto alle posizioni più recenti di Zero che lo vedono vicino spiritualmente ai dettami del Vaticano. Anche se La vita è un dono è un brano filosofico da non sottovalutare ed è stato da me analizzato proprio nel libro I cantautori e la filosofia da Battiato a Zero.

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Un altro tema che affronti approfonditamente nel tuo scritto è la dualità della personalità di Zero, quell’ambiguità che è insieme la sua forza e il suo limite. Naturalmente strano, brano del 2003, è un po’ il manifesto dell’identità di Zero, quasi un vero e proprio coming out. Come spieghi il rapporto difficile che tuttora intercorre tra Zero e le varie comunità LGBT militanti?

La questione infatti è molto delicata. Bisogna però ricordare che l’omosessualità nella poetica di Zero non è certamente dominante, soprattutto nella sua produzione più recente, ma di sicuro non è stata nemmeno marginale. All’inizio Zero ha cercato di schierarsi in modo più esplicito, penso ad esempio ai brani Onda gay, Per non essere così, etc. Forse con il tempo deve aver maturato l’idea di non voler palesare il proprio appoggio alla comunità lgbt. Ritengo però che nelle sue canzoni ha inserito spesso riferimenti al mondo omosessuale anche se con epiloghi diversi. Chiaramente lui è consapevole di esser stato un’icona gay e di questo ne ha beneficiato a lungo; poi deve essersi stancato di questo ed ha deciso di allontanarsene in modo marcato. A causa di ciò molti attivisti gay si sono sentiti, in qualche modo, “traditi” dal Renato Zero attuale, ma in verità il cantautore romano non ha mai voluto rappresentare nessuno a parte se stesso. Proprio per questo motivo ritengo una forzatura volere da lui una dichiarazione d’appartenenza per poterne sfruttare poi il nome. Poi è chiaro che certe sue affermazioni hanno innestato nella comunità gay alcune tensioni, però Renato Zero è un cantautore amato e ammirato proprio per la sua arte e non per i suoi gusti sessuali».

All’università di Catania ti fu negata la possibilità di stilare una tesi di laurea su Renato Zero. I cantautori sono ancora malvisti dalla cultura tradizionale?

Certamente. I cantautori non schierati politicamente non sono ben visti dagli accademici, e in special modo quelli che utilizzano un linguaggio immediato. Da filosofo non ho mai guardato alle cose o alle persone con la tipica repulsione che dimostrano i soliti professoruncoli incartapecoriti. Questi ultimi vivono perennemente nel passato e si aprono con ritrosia al nuovo che avanza, proprio come i cittadini di Glubbdubdrib, terra spettrale visitata da Gulliver nello splendido romanzo di Jonathan Swift. Chi è schiavo della tradizione stenta a comprendere che Renato Zero è un artista complesso, e anche se le sue canzoni sono popolari, i suoi testi si occupano di raccontare l’esistenza umana in ogni sua sfaccettatura. I cantautori dunque sono ancora malvisti, anche se dipende molto dai singoli professori. Non me la sento di generalizzare.

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Al 2006 risale il tuo Diabolus. Seminario di Letteratura Busiana. Riguardo allo scontro indiretto tra Busi e Zero nel reality L’isola dei famosi non ti sei pronunciato. In quell’occasione lo Scrittore toccò un tasto dolente. Trovi che con il brano Segreto amore (2010) Renato abbia risposto sinceramente ed esaustivamente?

Non ho preso posizione sulla polemica fra Aldo Busi e Renato Zero perché credo che la provocazione di Busi non è stata colta da Renato. Busi voleva stimolare un confronto dialettico con Zero, ma questo purtroppo non è mai accaduto. Lo scrittore bresciano e il cantautore romano in verità non hanno molto in comune se non l’urgenza di raccontare, ognuno a suo modo, il mondo interiore che li agita e li spinge ad emozionare il pubblico. Considero Busi uno dei più grandi scrittori contemporanei, nonché un acuto osservatore. L’autore di Seminario sulla gioventù ha sempre mostrato di non temere ripercussioni e ritorsioni di alcun tipo sulla sua persona e proprio per questo la sua opera letteraria è scevra dai ricatti e dall’usura del tempo. D’altra parte considero Renato Zero un artista completo e raro da trovare nel panorama italiano, ma come ogni grande artista ha le sue contraddizioni. Per Zero la canzone Segreto amore chiude ogni polemica sulla sua sessualità, ma questo sta a lui stabilirlo e non a me. Per quanto mi riguarda penso che Zero rifiuti qualsiasi etichetta sulla sua persona e di conseguenza sulla sua musica. In definitiva mi chiamo fuori dalla polemica innestata a suo tempo primo perché non mi appartiene, e poi perché ognuno di noi deve assumersi la responsabilità di ciò che afferma. Ogni artista si esprime attraverso le sue opere, il resto non conta nulla.

Redazione Amedit

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 19 – Giugno 2014

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