Klausen-Chiusa, il piccolo centro della Valle Isarco famoso per il monastero di Sabiona e per l’incisione di Albrecht Dürer intitolata “Nemesis”, non è fortunatamente fedele al suo nome che potrebbe suggerire un luogo di ristrette vedute. Da qualche tempo, infatti, un’intelligente amministrazione, basata sul principio dell’accoglienza e del riconoscimento dei nuovi cittadini d’origine straniera che vi risiedono o vi lavorano, l’ha reso teatro d’iniziative culturali alle quali può rivolgersi con simpatia e fiducia chiunque non si accontenti di seguire a distanza gli astratti dibattiti su integrazione e multiculturalismo, ma voglia conoscere chi sono questi nuovi concittadini venuti da posti lontani, incontrarli realmente e guardarli negli occhi.
Se in questi giorni capiterete da quelle parti, allora, non perdete l’occasione di visitare il Museo Civico. Là, fino all’inizio di novembre, è possibile ammirare la mostra fotografica di Giovanni Melillo Kostner e dell’antropologa Martha Jiménez Rosano. Troverete una galleria di bellissimi ritratti che lasciano affiorare mediante la forza poetica di chi li ha compiuti ciò che si sottrae alla casualità di una semplice serie di scatti. Le figure occupano tutte uno spazio concreto, le vie e le piazze di Chiusa non risultano così un semplice sfondo, ma offrono la collocazione necessaria e per così dire la scena privilegiata di un racconto che assume la città nel suo ruolo di ambiente disponibile a prendere forma in base a chi desidera abitarlo. In questo senso il museo assume con consapevolezza programmatica il ruolo di uno spazio aperto, dando vita a un’azione di sollecitazione e d’intersezione tra dimensioni che solitamente (ed erroneamente) riteniamo in contrasto: dentro e fuori, tradizione e innovazione, indigeno e straniero.
Qualche giorno fa, partecipando a un incontro organizzato a Bressanone per discutere della relazione tra arte e sviluppo urbano, Antonio Lampis, il direttore della ripartizione cultura italiana della Provincia, aveva opportunamente richiamato l’attenzione sul rischio connaturato ad ogni iniziativa basata sulla promozione delle “bellezze locali”: quello di puntare in modo poco avvertito a imprigionarne il carattere e le possibilità di fruizione nella loro immagine stereotipata e da cartolina. È l’errore compiuto da moltissime e celebratissime “città d’arte” italiane, trasformate in asettici contenitori di sensazioni prefabbricate e invariabili, fino a staccarle quasi irrimediabilmente dal flusso vitale che le aveva plasmate nel tempo rendendole uniche. Chiusa sembra aver compreso la portata immiserente di un tale processo e la mostra della quale ho parlato è un tangibile segno di resistenza: sia etica che estetica.
Corriere dell’Alto Adige, 29 settembre 2011 (Una resistenza estetica ma anche etica)