Il giorno in cui si spense tutto qualcuno protestava online: era stufo del granchio artificiale il lunedì, voleva qualcosa di più fresco e gustoso. Dobbiamo farci sentire, facciamo una raccolta firme. Avevano già raccolto trentamila nomi quando la rete morì, lasciando milioni di computer alla ricerca affannosa di una connessione. Miriadi di dita batterono all'unisono sulle tastiere di portatili con la batteria quasi scarica per tentare di salvare quella preziosissima richiesta di cambiamento. Tutto inutile: il panico agì con la rapidità di un gas nervino. Qualcuno ci rimase secco, altri furono attanagliati dall'ansia, mentre altri ancora formularono un pensiero nuovo: esco.
Fu una gran fatica alzarsi dalla sedia: anni e anni di scatolette li avevano resi grassi e squadrati. Mani grassocce strinsero pomelli immacolati e aprirono porte polverose. Sulle strade senza marciapiedi si affacciò così una folla di uomini e donne deformi, simili a zampettanti cubi obesi, che dopo lo stordimento iniziale iniziò a camminare a fatica verso il Parlamento, il posto da cui i politici parlavano. Il sole grigiastro feriva gli occhi disabituati alla luce e l'aria spessa entrava a fatica nei polmoni, ma erano risoluti a protestare per quel vergognoso blackout. Volevano giustizia, volevano i quiz preserali e soprattutto volevano salvare la raccolta firme.
Ben presto si resero conto di non sapere dove stessero andando. Qualcuno tirò fuori un cellulare e tentò di collegarsi a Google Maps, prima di ricordarsi il motivo per cui erano usciti. Ma la provvidenza li aiutò, e dopo un paio d'ore di cammino senza meta videro la maestosa sede del Parlamento. Nonostante la fatica accelerarono il passo e ben presto giunsero davanti all'ingresso. Quando si fermarono il silenzio fu assoluto.
Davanti al portone non c'era nessuno. Le pesanti maniglie erano ricoperte di ragnatele, le finestre del palazzo sfondate. Non c'era traccia di forze dell'ordine, picchetti di giornalisti, guardie del corpo e di tutto quel trambusto che vedevano alla televisione o in rete. Uno di loro si fece avanti e bussò: TOOC, TOOC, un suono che sembrò rimbombare all'infinito. - C'È QUALCUNO?? - urlò, e nessuno rispose.
Lì non c'era anima viva, ma nessuno si fece domande. Nella folla regnava uno sbigottimento informe, decerebrato. - E adesso? - gridò qualcuno. Nessuno rispose, ancora una volta.
Poi qualcuno gridò. Un tizio sudaticcio prese a saltare nella ressa. - Prende, prende! - sbraitava. Sul display del suo smartphone era appena comparsa una tacca di ricezione. Sopra di loro un lampione si accese, e illuminò di felicità il corteo. Dopo infiniti baci, abbracci e canti di gioia girarono i tacchi e tornarono sulle loro sedie davanti ai monitor. C'era del lavoro arretrato da fare, era in gioco la libertà di tutti: pretendere qualcosa di meglio del granchio artificiale era un loro, sacrosanto diritto.
Dal telegiornale della sera il simulacro 3D di una presentatrice spiegò con voce robotica che il blackout era dovuto a un "malinteso con i fornitori". Nessuno si fece domande, tutti si limitarono ad annuire con la testa, la bocca piena di polpette in scatola: quelle sì che erano davvero buone.
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