"Zen, una ragazzina autistica, è alla ricerca di soldi per pagare le cure alla madre malata di cancro, la quale è a sua volta inseguita da una gang di criminali assetati di vendetta"
Un esile pretesto si fa metafora dei disagi sociali di un’intera società: incredibile constatare come, finalmente, sia la trama di fondo a dare spessore ai personaggi ed alle situazioni, senza farsi debole pretesto riempitivo tra un combattimento ed il successivo.
La protagonista, una bellissima JeeJa Yanin, dedica anima e corpo alla piccola e fragile Zen. Come paradossalmente avveniva nell’iperpop Spiderman di Sam Raimi, le sequenze narrativamente preparatorie ai futuri confronti con personaggi e situazioni ostili diventano il fulcro stesso dell’opera, quasi a voler sottolineare spavaldamente la profonda differenza prospettica (leggasi autorialità cinematografica) del regista in questione. Non si lesina in autoironia e citazioni cult (la fabbrica di ghiaccio de Il furore della Cina colpisce ancora di Lo Wei, protagonista l’immenso Bruce Lee), tutto senza mai trasformare il risultato finale nella baracconata action tanto gradito dall’audience Americana. Sorprendente lo scontro finale, con un’antagonista che rielabora senza compromessi l’estetica maudit Europea frammentandola nell’illusoria immortalità di icone horror come Michael Meyers o Jason Vorhees.
Pur se imperfetto e poco incisivo dal punto di vista coreografico, Chocolate rappresenta indubbiamente un importante passo avanti della cinematografica tailandese, progressivamente sempre più prossima ad un agognato equilibrio contenutistico, attoriale e narrativo di impareggiabile splendore.
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