Tra Sam Peckinpah, Jean-Pierre Melville, John Woo e Tsui Hark, c’è soltanto Johnnie To. Regista unico per la purezza della sua macchina da presa, occhio che svela traiettorie impossibili (quelle dei proiettili che squarciano corpi e affondano anime) e tortuosi percorsi personali (quelli di estranei che diventano fratelli). Vendicami (Fuk sau, 2009) è la sua ultima opera, presentata al Festival di Cannes 2009 e solo nel maggio 2010 distribuita in Italia da Fandango (nonostante sia stato premiato con il Leone Nero come miglior film al Noir Film Festival di Courmayeur). Un’idea di cinema purissima quella di Johnnie To, che sceglie come protagonista della vicenda il volto di pietra di Johnny Hallyday. Non è un caso che il personaggio interpretato dal rocker francese si chiami Costello, come il Frank “faccia d’angelo” di Melville, Jef le samouraï che fu la faccia malinconica e solitaria di Alain Delon (proprio lui chiamato in origine da To per il ruolo del padre in cerca di vendetta).
Solitudini che si incontrano tra Parigi, Macao e Hong Kong. Senza ritorno. Costello vede la sua famiglia distrutta nel giro di un attimo. Neanche il tempo di un pranzo e tre killer uccidono suo genero e i due nipotini. Non potevano fare altrimenti. La figlia è salva per miracolo. E chiede vendetta. Fino a che punto può arrivare un uomo per soddisfare questa sete? La risposta è nel percorso di purificazione che compie. Prima tappa Macao, per assoldare tre killer spietati, i migliori. Kwai (superbo come sempre Anthony Wang), Chu e ‘Fat’ Lok. «Non esiste solitudine più profonda del samurai, se non quella della tigre nella giungla». Non esiste legame più solido di quello che si viene a creare tra persone che si sono date la loro parola. Sembra di vedere Pike e Deke: «Ha dato la sua parola. Non importa a chi». «Invece importa!». A costo di mettersi contro il proprio capo, il mandante della strage. I tre da braccare sono a Hong Kong. La sparatoria a sette nel bosco è un concentrato di furia visiva da mandare a memoria. Così come la tavola imbandita che scandisce ogni singola azione del gruppo. A riprova della vecchia, consumata, piacevole ossessione che il cinema asiatico (quello di To in particolare) ‘nutre’ verso il cibo.
Un paradosso è la vera natura di Costello: è un cuoco, non tocca una pistola da vent’anni. Perché in passato è stato un killer. Una pallottola gli è entrata in testa e gli causa continue perdite di memoria. Può in tal modo la vendetta avere senso? Certo, finché davanti l’obiettivo passano cubi di spazzatura in un cimitero di oggetti, assurde polariod, occhi languidi, lampi improvvisi di una ‘gunfight’ infinita. Un lirismo dolente e ironico, che si stempera in quattro calci dati ad un pallone in compagnia di un branco di bambini ed in una risata sardonica, liberatoria, davanti ad una ciotola di riso. La pioggia continua a cadere, le nuvole profonde lasciano campo ad una splendida luna, luci ed ombre come i buchi che si riempiono di sangue. Quiete e movimento. Uno spazio colmo di corpi che incarnano un’etica profonda. Quasi impensabile al giorno d’oggi. Come i ralenti che dilatano il tempo e inneggiano ad una notte infinita.
Meraviglioso, folle Johnnie To.