Ci parli del suo libro

Da Marcofre

Tranquilli: non è accaduto nulla, nessun libro all’orizzonte da parte mia, la letteratura è salva, contenti?
Però volevo un titolo che attirasse l’attenzione, chissà che non ci sia riuscito.
Torniamo a parlare di racconti. In realtà mi pare di non fare altro in questi ultimi tempi. Eppure sto leggendo un romanzo e il prossimo sarà ancora un romanzo.

I racconti sono brevi: che bello leggerli. Non sono impegnativi e anche a scriverli, che ci vuole?
C’è un problema piuttosto grave in questo modo di pensare. È il prodotto dell’inflazione delle parole. Non si guarda al loro senso, al peso che hanno, o alla direzione che possono imprimere. Nemmeno ci si cura dell’energia che possono scatenare. Basta che la pagina sia piena.

A questo punto diventa naturale considerare il racconto preferibile, sotto qualsiasi punto di vista. Anche se brutto, non avrò perso troppo tempo.
A mio parere, è grave che la parola sia stata così violentemente svalutata. Questo produce nel lettore l’idea che breve è meglio e più leggero. Mentre scrivere ottocento pagine è impegnativo e di certo dona a chi lo fa un’aurea di intelligenza e spessore.

Ma scrivere non è vendere sacchi di farina. Quello che importa è il senso. È l’eredità che quelle parole lasciano in noi. E come tutte le eredità non bisogna scialacquarla, ma al contrario mantenerla ben viva, coltivarla e ampliarla.

Quando ci si rende conto che ogni parola ha forza, ed è preziosa come l’oro, è compito di chi scrive badare affinché nulla vada sprecato. Diventa evidente anche agli asini che la brevità diventa anch’essa una qualità del tutto secondaria. Se tutto è curato, calibrato, caricato a molla come si deve, la storia deflagrerà e non lascerà il lettore indifferente.

Esistono infatti racconti che irradiano un’energia spaventosa; e mattoni di 800 pagine che si liquidano con un “Buono”, per poi passare tranquillamente al campo da golf o a sbucciar patate. Nel caso del mattone propagandato da certa stampa, non c’è alcuna conseguenza sul lettore. Una sciarpa, un paio di guanti possono sortire un effetto migliore di certi libri. Questo è tragico.

“Ci parli del suo libro” chiede il giornalista allo scrittore. L’unica risposta sensata dello scrittore dovrebbe essere: “Leggetelo”. Cioè andate a caccia del suo significato, del senso che racchiude. Spesso l’autore ha passato giornate intere su una stupida pagina, e d’un tratto gli si chiede un’etichetta. Una definizione.
Il senso della storia (se c’è, si capisce), impedisce di gettarla alle spalle con facilità.

I discorsi, le domande sulla trama, spesso sono solo una trappola, un espediente con cui si cerca di rendere banale la parola. Non dico che la trama non è importante, oppure che se ne può fare a meno. Nel mondo si stampano un numero enorme di trame. Si lasciano leggere così come un bicchiere di acqua si lascia bere.
Se invece esiste un senso, una direzione, saranno questi elementi ad agire sul lettore, a lasciargli addosso un peso che in realtà è una consapevolezza nuova (o ritrovata?).

Esiste la letteratura, e l’intrattenimento. Questo deve essere chiaro. Poi, tocca al singolo decidere da che parte stare, e cosa fare.


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